9 dicembre 2011

No mobbing se si utilizzano espressioni scortesi

Rigettato il ricorso di un dipendente che lamentava di subire espressioni scortesi in un contesto aziendale caratterizzato da rapporti informali

Autore: Redazione Fiscal Focus
Premessa – Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 5286 del 7 novembre 2011, ha stabilito che non costituisce mobbing la condotta dell’amministratore delegato che si rivolge a un dipendente rimproverandolo con termini scortesi e incivili al fine di sollecitarlo a una maggiore produttività in un contesto aziendale caratterizzato da rapporti informali anche se in tale ambiente il dipendente accusa un disagio psico-fisico.

La vicenda – Il dipendente, in data 29 novembre 2010, depositava ricorso perché lamentava di aver subito situazioni di mobbing a causa di alcuni insulti ed intemperanze rivolti nei suoi confronti da parte dell’amministratore delegato della società in occasione di alcune riunioni ed incontri di lavoro con la finalità, a suo dire, di isolarlo ed escluderlo dal contesto aziendale. Ad avviso del ricorrente, tale finalità sarebbe stata raggiunta in data 17 giugno 2010, ovvero nel momento in cui il dipendente ha accusato un infarto da attribuire, secondo il suo punto di vista, alle condotte inappropriate dell’amministratore delegato.

Il mobbing – Poiché il mobbing non ha una propria autonoma dignità giuridica, il Tribunale di Milano per decidere la controversia ha fatto esplicito riferimento alla Corte di cassazione n. 4774/2006, la quale stabilisce che esso consiste in: “una fattispecie di danno derivante da una condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione, finalizzata all’emarginazione del lavoratore”. Gli elementi caratterizzanti di questo comportamento sono:
- la protrazione nel tempo della condotta attraverso una molteplicità di atti, sia giuridici, sia materiali, che, se considerati singolarmente, possono essere anche legittimi;
- la volontà dell’agente, che riconduce tali atti a un disegno unitario volto alla persecuzione o all'emarginazione del dipendente;
- il conseguente danno per la vittima, che può concretizzarsi in una lesione della sua sfera professionale, sessuale, morale, psicologica o fisica.

La sentenza – Innanzitutto, occorre sottolineare che dall’istruttoria esperita emergeva chiaramente come l’amministratore della società fosse aduso a non curare particolarmente la forma delle sue comunicazioni, utilizzando più volte termini inappropriati e volgari. Occorre evidenziare però che, in generale, le comunicazioni e i rapporti all’interno dell’azienda avevano un tenore piuttosto informale e anche il ricorrente si rivolgeva con espressioni gergali ai propri colleghi, ivi incluso lo stesso amministratore delegato. Passando a esaminare la sentenza in questione, il Tribunale di Milano ha ritenuto che gli elementi costitutivi della fattispecie di mobbing non potevano considerarsi sussistenti in quanto non sarebbe stata in alcun modo provata l’esistenza di un disegno persecutorio elaborato e a tal fine perseguito dalla società e, in particolar modo, dal suo amministratore delegato, in danno del dipendente. Pertanto, il giudice ha rilevato che l’utilizzo occasionale di termini scortesi, non possono essere considerati di per sé elementi di una condotta mobbizzante, in quanto non finalizzati alla persecuzione o all’emarginazione del dipendente dall’ambiente lavorativo, specie se adoperati da soggetti propensi all’utilizzo di un linguaggio informale. In definitiva, il ricorso del dipendente è stato rigettato, con compensazione integrale delle spese di giudizio tra le parti.
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