13 novembre 2025

Licenziamento per giusta causa del lavoratore che entra nel sistema informatico dell'azienda prelevando dati sensibili di altri

Giuslavoro n. 40 - 2025
Autore: Paola Mauro

 

L’accesso abusivo del dipendente alla banca dati aziendale può essere sanzionato col licenziamento. Infatti, quando le interrogazioni riguardano soggetti estranei alla sfera di competenza lavorativa del dipendente e non sono giustificate da alcuna necessità di servizio, la condotta è penalmente rilevante e lesiva dei doveri fondamentali di lealtà e riservatezza.

 

Il caso: violazione del vincolo fiduciario nel pubblico impiego sanitario 

Con la sentenza n. 28887/2025 del 1° novembre, la Corte di cassazione (Sez. L) ha affrontato la questione della legittimità del licenziamento in ipotesi di accesso abusivo a sistema informatico (art. 615-ter c.p.).

Il caso riguarda una operatrice dell’Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP) di un’Azienda Ospedaliero-Universitaria che ha effettuato, in un arco temporale di oltre tre anni (dal 2014 al 2017), trenta accessi illeciti nel Dossier Sanitario Elettronico e, per ragioni personali, consultato, senza alcuna giustificazione o ragione di servizio, i fascicoli sanitari dei suoi vicini di casa, nei confronti dei quali, insieme al di lei marito, aveva pronunciato a partire dal 2015 insulti e minacce di morte per le quali era stata penalmente condannata in primo grado e in appello.

La Suprema Corte ha confermato la valutazione del merito circa la gravità della condotta e la sua idoneità a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario. 

Nel dettaglio, le indagini interne hanno evidenziato che agli accessi non autorizzati, compiuti in assenza di qualsiasi esigenza di servizio, si erano aggiunti comportamenti di tipo intimidatorio e offensivo nei confronti delle persone titolari dei dati sensibili consultati, per i quali la dipendente era già stata coinvolta in un procedimento penale. 

L’azienda, valutata la gravità dei fatti, ha disposto il licenziamento immediato per violazione del dovere di fedeltà e correttezza, nonché per l’abuso delle proprie funzioni.

La lavoratrice ha impugnato il provvedimento espulsivo davanti al Tribunale del lavoro, lamentando la violazione del principio di proporzionalità e gradualità delle sanzioni disciplinari. 

Tuttavia, sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno confermato la legittimità del licenziamento, ritenendo che gli accessi abusivi configurassero una violazione estremamente grave delle regole di riservatezza e del corretto utilizzo dei sistemi informatici aziendali.

Nel ricorso per cassazione, la dipendente ha insistito sul difetto di proporzionalità, sostenendo che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto di circostanze attenuanti e del principio di necessaria graduazione delle sanzioni. 

Gli “Ermellini”, però, hanno evidenziato che, in materia di sanzioni disciplinari, il giudizio di proporzionalità tra licenziamento e addebito contestato è devoluto al Giudice del merito, in quanto implica un apprezzamento dei fatti che hanno dato origine alla controversia, ed è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione della sentenza impugnata sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata articolata su espressioni o argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi o manifestamente e obiettivamente incomprensibili, ovvero ancora sia viziata da omesso esame di un fatto avente valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto con certezza ad un diverso esito della controversia (cfr., ex multis, Cass., n. 107/2024).

Ciò posto, nel caso di specie, la decisione di secondo grado è risultata pienamente motivata e coerente, sottolineando come l’abuso degli accessi informatici, soprattutto in ambito sanitario, costituisca un comportamento di estrema gravità. 

Tale condotta non solo viola gli obblighi contrattuali e le norme in materia di protezione dei dati personali, ma compromette irrimediabilmente il vincolo fiduciario che deve sussistere tra datore di lavoro e dipendente, specialmente in un contesto pubblico e sensibile come quello sanitario.

In conclusione, la Suprema Corte ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa, discutendosi di fatti o atti dolosi di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.

La ricorrente è stata condannata al pagamento delle spese processuali. 

 

La giurisprudenza di legittimità (v. Cass. n. 2806/2025 che richiama in motivazione Cass. n. 28928/2018; Cass. n. 19588/2021; Cass. 34717/21) ha già avuto modo di stabilire che:

  • L’azienda non può riporre fiducia in una dipendente che approfitta della propria posizione e profilo di autorizzazione di accesso ai sistemi informatici per acquisire dati sensibili di terzi a fini personali;
  • L’accesso al sistema informatico aziendale, non può essere considerato lieve quando realizzato per finalità personali o comunque non riconducibili a esigenze di servizio.
     

Caso 

Anita Garibaldi, impiegata amministrativa presso un’Azienda Sanitaria Locale, è incaricata della gestione dei reclami e delle segnalazioni dei cittadini. Nello svolgimento delle sue funzioni dispone di credenziali personali per accedere al sistema informatico aziendale contenente i dossier sanitari elettronici dei pazienti.

Nel corso di un’indagine interna, emerge che Anita ha effettuato numerosi accessi al sistema per consultare i dati sanitari di un vicino di casa e di altri conoscenti, senza alcuna motivazione di servizio. La dipendente giustifica la condotta sostenendo che tali consultazioni erano motivate da “curiosità personale” e che non aveva diffuso i dati né arrecato danno concreto.

L’Azienda avvia un procedimento disciplinare e, ritenendo il comportamento gravemente lesivo del vincolo fiduciario, dispone il licenziamento per giusta causa. La lavoratrice impugna il licenziamento, sostenendo la sproporzione della sanzione e l’assenza di un danno effettivo.

Secondo Cass. Sez. L n. 28887/2025:

  • L’accesso al sistema informatico aziendale effettuato per finalità personali o comunque non riconducibili a esigenze di servizio costituisce condotta grave, idonea a ledere irreversibilmente il vincolo fiduciario.
  • Non rileva che i dati non siano stati diffusi o che non vi sia stato un danno patrimoniale: la violazione del dovere di riservatezza e dell’obbligo di correttezza è di per sé sufficiente a fondare la giusta causa di licenziamento.
  • La proporzionalità della sanzione va valutata in relazione alla natura dolosa della condotta, alla violazione del codice di comportamento del dipendente pubblico e alla delicatezza delle informazioni trattate.
  • Il giudizio di proporzionalità, rimesso al giudice di merito, è sindacabile in Cassazione solo se manifestamente illogico o privo di motivazione.

Alla luce dei principi affermati dalla Corte di Cassazione, il licenziamento di Anita Garibaldi è legittimo, poiché:

  • ha compiuto accessi dolosi e privi di giustificazione di servizio;
  • ha violato norme di legge (art. 615-ter c.p.) e il codice disciplinare;
  • ha posto in essere un comportamento incompatibile con la permanenza nel rapporto fiduciario.
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