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La Corte di cassazione (Sez. IV civ. – L, Sent. n. 21103/2025) ha confermato che l’insulto al superiore, in presenza di colleghi e in un contesto lavorativo, può integrare una giusta causa di licenziamento, a prescindere dalla longevità del rapporto o da difficoltà personali, quando compromette il rapporto fiduciario.
Più esattamente, dalla lettura della sentenza in questione, emerge che, in tema di licenziamento disciplinare, integra giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. la condotta del lavoratore che, in presenza di altri colleghi, rivolga al proprio superiore gerarchico espressioni oggettivamente offensive e denigratorie, idonee a manifestare disprezzo verso l’autorità e a compromettere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, anche se trattasi di episodio isolato e in assenza di danno organizzativo concreto.
L’elencazione delle fattispecie di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha natura esemplificativa e non tassativa, sicché il Giudice può ravvisare la giusta causa anche in comportamenti non espressamente previsti, ove valutati come lesivi della fiducia e della funzionalità gerarchica.
La verifica della proporzionalità tra condotta e sanzione è rimessa al Giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se congruamente motivata.
La lavoratrice ha impugnato il licenziamento per giusta causa intimatole nel 2018, lamentando la violazione del principio di proporzionalità e chiedendo, perciò, la reintegra.
Il Tribunale le ha dato ragione, ritenendo l’episodio riconducibile a una condotta punibile solo con sanzione conservativa, mentre la Corte d’Appello ha ribaltato la decisione, avendo qualificato la condotta – l’aver rivolto un insulto volgare al superiore in presenza di una collega e in un contesto di contestazione a una direttiva – come grave insubordinazione, sufficiente a integrare la giusta causa di licenziamento. Inoltre, ha richiamato un precedente disciplinare del 2016, considerandolo indice della tendenza della lavoratrice a trascendere in espressioni offensive.
Stante quanto sopra, la lavoratrice ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo, tra l’altro, l’errata interpretazione del contratto collettivo, l’assenza di gravità tale da giustificare il licenziamento e l’omesso esame di documenti rilevanti.
La Suprema Corte ha rigettato tutti i motivi.
Ad avviso degli Ermellini – in sintesi:
Nel dettaglio, la lavoratrice in questione si è difesa adducendo che la condotta contestata, nei suoi risvolti oggettivi e soggettivi, non presentava quel carattere di gravità tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, anche alla luce di elementi quali la longevità del rapporto di lavoro e l'asserito stato di disagio psicofisico al momento del fatto.
Tuttavia, la Corte territoriale ha ampiamente motivato la propria decisione sulla sussistenza della giusta causa, conformandosi agli "standard" elaborati dalla giurisprudenza di legittimità per l'applicazione dell'art. 2119 c.c.
La Corte di merito ha valutato la gravità intrinseca dell'epiteto ("leccaxxxo") rivolto a un superiore gerarchico, non come mero "alterco o diverbio", ma come insubordinazione qualificata dall'ingiuria e dal rifiuto di adempiere, comportamento che incide direttamente sulla funzionalità e sulla gerarchia aziendale.
Quindi, il Collegio d’Appello ha considerato il contesto in cui è stato pronunciato l’insulto:
Il giudice di secondo grado ha, quindi, ritenuto la condotta in contestazione, per la sua natura oggettivamente grave, idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, a prescindere dalla longevità del rapporto o da asserite condizioni personali della lavoratrice.
Inoltre, ha considerato il precedente del 2016 come un «indice della facilità con la quale la dipendente trascende nell’uso di toni e termini chiaramente offensivi», evidenziando una «inclinazione all'insulto e all'ingiuria» della lavoratrice, elemento che – spiega in motivazione Cass. L, n. 21103/2025 -, «seppur non determinante in termini di automatismo sanzionatorio, può essere considerato dal giudice di merito per valutare la complessiva condotta del dipendente e l'idoneità del fatto contestato a ledere il vincolo fiduciario. Tale valutazione rientra nel sindacato di merito e non costituisce violazione dell’art. 7, co. 8 dello Statuto dei Lavoratori, che non consente di tener conto in termini di recidiva dei fatti commessi dopo due anni dall’applicazione della relativa sanzione disciplinare ma non impedisce al giudice di merito di apprezzare un precedente comportamento del lavoratore per valutarne la personalità e l'idoneità alla prosecuzione del rapporto, anche se la sanzione correlata è sospesa.»
Ebbene, in definitiva, gli Ermellini hanno ritenuto le conclusioni dei colleghi di merito giuridicamente corrette, sicché la decisione impugnata si è sottratta al sindacato di legittimità venendo perciò confermata.
La Cassazione ribadisce alcuni principi consolidati:
Maria Rossi è un’infermiera professionale, in servizio da 14 anni, con valutazioni positive, presso un presidio sanitario convenzionato con il SSN, gestito da una fondazione privata.
Nel corso di un turno pomeridiano, la coordinatrice chiede a Maria di rimanere un’ora in più per coprire un’assenza imprevista.
La lavoratrice, già irritata per precedenti diverbi sull’organizzazione dei turni, risponde in presenza di due colleghi: “Fallo tu il turno, che sei solo capace di comandare e leccare i piedi alla direzione.”
La frase viene immediatamente riportata in una relazione interna.
Il giorno successivo, la direzione convoca la lavoratrice, che non nega la frase, ma sostiene di averla detta “per nervosismo” e “senza intenzione offensiva”.
L’azienda avvia un procedimento disciplinare ex art. 7 St. lav., contesta l’insubordinazione e l’ingiuria, e, valutata la gravità dell’episodio, procede al licenziamento per giusta causa.
A questo punto Maria impugna il licenziamento sostenendo che:
Il Tribunale accoglie parzialmente il ricorso, ritenendo la condotta illecita ma non di gravità tale da giustificare la sanzione espulsiva. Applica quindi la sanzione conservativa della sospensione.
La Corte d’Appello accoglie, invece, la tesi del datore, in quanto ritiene che l’ingiuria “leccare i piedi alla direzione”, rivolta a un superiore in presenza di colleghi, configuri grave insubordinazione e quindi conferma il licenziamento per giusta causa.
Successivamente si pronuncia la Corte di cassazione che conferma il verdetto di secondo grado, sulla scorta dei seguenti rilievi:
(prezzi IVA esclusa)