Premessa – In tema di licenziamenti collettivi, il controllo giudiziale è estraneo alla verifica dell’effettività e ragionevolezza dei motivi che giustificano, nelle enunciazioni dell’imprenditore, la riduzione di personale, cosicché il lavoratore licenziato è abilitato a far valere l’inesistenza del potere di recesso per violazione delle regole della procedura ovvero la lesione del diritto a una scelta imparziale per violazione dei criteri stabiliti dalle legge o dall’accordo sindacale. A stabilirlo è la Cassazione con la sentenza n. 5195/2014.
La vicenda – Il caso, in particolare, trae origine dal contenzioso che ha visto protagonisti Poste Italiane S.p.A. e una dipendente, destinataria di un provvedimento di licenziamento per riduzione di personale. La lavoratrice aveva citato in giudizio la società per sentir dichiarare l'inefficacia dell'atto di risoluzione del rapporto di lavoro adottato nei suoi confronti ed il riconoscimento del diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro da lei occupato, con le conseguenti statuizioni di ordine risarcitorio, retributivo e previdenziale, in esito alla procedura prevista dagli artt. 4 e 24 della Legge n. 223 del 1991. La società, al contrario, sosteneva la legittimità della procedura di licenziamento collettivo sia sotto il profilo dell'attinenza al dato formale richiesto dalla Legge n. 223/991 sia sotto l'aspetto delle esigenze sostanziali sottese alla riduzione di personale sia con riguardo alla ratio legis, costituita dalla necessità di individuare le soluzioni che meglio contemperassero le esigenze dell'impresa con l'impatto sociale della procedura. Poste Italiane Spa ha avuto ragione sia in primo che secondo grado di giudizio. La lavoratrice però ha impugnato la sentenza ed è ricorsa in cassazione, sostenendo che l'azienda si era limitata, con riguardo all'indicazione del personale in esubero, ad allegare, per giustificare un taglio di 9000 posti di lavoro, una scarna tabella indicante il personale in eccesso ripartito per "regione" e per "aree funzionali". Inoltre, sosteneva la mancata e insufficiente indicazione dei motivi dell'esubero e la mancata indicazione del personale abitualmente impiegato nonché la mancata puntuale indicazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta con riferimento ai requisiti pensionistici in possesso dei lavoratori.
La sentenza – La Suprema Corte ha respinto il ricorso della lavoratrice e conferma la legittimità del licenziamento collettivo. Infatti, gli Ermellini osservano che la qualificazione del licenziamento in base al progetto di riduzione del personale con effetti sociali rilevanti comporta, in attuazione dell'art. 41 Cost., che l'imprenditore sia vincolato soltanto nel quomodo, essendo obbligato allo svolgimento della procedura prevista dalla legge (art. 4, Legge n. 223/1991) che realizza così lo scopo di procedimentalizzare il potere di recesso, il cui titolare è tenuto non più a mere consultazioni, ma a svolgere una vera e propria trattativa con i sindacati secondo il canone della buona fede. L’operazione imprenditoriale diretta a ridimensionare l'organico si scompone, infine, nei singoli licenziamenti, ciascuno giustificato dal rispetto dei criteri di scelta, legali o stabiliti da accordi sindacali, ma entro una cerchia di soggetti delimitati dal "nesso di causalità", ossia dalle esigenze tecnico-produttive e organizzative poste a base della scelta imprenditoriale. Per la Cassazione, in definitiva, una volta che la procedura si sia svolta nel rispetto degli adempimenti previsti dalla Legge 23 luglio 1991, n. 223, condotte datoriali quali l'assunzione di nuovi lavoratori o la richiesta di svolgimento di lavoro straordinario, dopo il licenziamento, sono irrilevanti, risultando esse inidonee a incidere sulla validità del licenziamento stesso.
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