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Artifizi lessicali

Autore: Ester Annetta
È noto che la lingua italiana, nella sua immensa ricchezza e varietà, possiede numerosissimi sinonimi che, sebbene spesso non siano ‘assoluti’, offrono tuttavia ampio margine di colorire con sfumature diverse espressioni che hanno lo stesso significato.

Lo sapeva bene Niccolò Tommaseo quando, sul finire degli anni ’20, a Firenze, procuratasi una copia dell’edizione del 1806 del Vocabolario della Crusca, cominciò ad interfogliarla con pagine fittissime di appunti, frasi ed esempi, giungendo infine, nel 1830, alla pubblicazione del suo ‘Dizionario dei sinonimi della lingua italiana’.

Ancora oggi, del resto, chiunque ami la lingua e la scrittura possiederà un Devoto-Oli ereditato dall’’era digitale’ o avrà qualche volta interrogato Google, andando alla ricerca di lemmi ‘sostitutivi’ per evitare ripetizioni.

Ma la nostra lingua è altrettanto nota per aver spesso consentito che, in prosieguo di tempo e di impiego, alcuni termini perdessero la loro connotazione neutra (o addirittura positiva) per assumerne una decisamente negativa o spregiativa.

È accaduto in passato con ‘negro’ e ‘handicappato’ – per citarne solo alcuni tra i più abusati – e continua ad accadere tuttora, specie da quando l’ossessione del ‘politicamente corretto’ sta assumendo dimensioni sempre più spropositate.

In un passato abbastanza recente, tale sorte è già toccata al lemma “razza” e, negli ultimi tempi, sta interessando anche “etnia” ed ogni sua derivazione, non ultima la sua aggettivazione accostata a vari termini, tra cui ‘sostituzione’.

‘Razza’ è perlopiù sempre stato utilizzato con riferimento agli animali; tuttavia per lungo tempo anche gli esseri umani sono stati suddivisi in “razze” diverse, in considerazione delle loro differenze fisiche, come il colore degli occhi, della pelle e dei capelli.

Proprio su tali basi, anzi, nell’800, a seguito della pubblicazione del ‘Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane’ (1853-55) di de Gobineau, si era affermata la distinzione tra “razze superiori” e “razze inferiori” all'interno della specie umana.

Ciò che è conseguito dall’amplificazione di tale pretesa contrapposizione è storia: lo sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti per il mantenimento della purezza e l’affermazione della razza ariana; il massacro degli armeni; l’apartheid e ogni altra forma di discriminazione nei confronti degli uomini di colore in varie parti del mondo.

L’idea su cui si fondavano le convinzioni di una diversità tra gli esseri umani era che le varietà visibili a occhio nudo (colore della pelle, ecc.) fossero dovute alla presenza di geni differenti nelle diverse “razze”. Il DNA era stato scoperto nel 1869, ma solo un secolo dopo, agli inizi degli anni ’70 del Novecento, alcuni genetisti – tra cui Lewontin – si erano cimentati nello studio di quello di sette ‘razze’ (caucasici; africani sub-sahariani; mongolidi; popolazioni del Sud-est asiatico; aborigeni australiani; popolazioni dell’Oceania; amerindi) giungendo alla conclusione – confermata più tardi anche dal genetista italiano Cavalli-Sforza – che le differenze tra il loro materiale genetico sono molto piccole, tanto da dedurre che tutte derivassero da uno stesso gruppo di antenati comuni.

Sull’onda di una tale evidenza scientifica, negli anni si è cominciato a prendere le distanze dal termine ‘razza’, giacché, essendo impossibile, sotto il profilo biologico, categorizzare l’umanità secondo criteri genetici che marcassero differenze ad essa legate, parlare di ‘razze umane’ sarebbe stato scorretto. Così, nel 2020 la Germania era giunta perfino a proporre il varo di una legge che eliminasse la parola ‘razza’ da qualunque documento della Repubblica, compreso l’art. 3 della Costituzione.

Ma giacché spesso questioni di forma e di sostanza tendono a confondersi, ecco che, messo la parte l’impiego spregiativo di ‘razza’, l’affascinante versatilità della nostra lingua ha consentito che si trasfondesse nel lemma ‘etnia’ quella connotazione negativa che prima le mancava e che, anzi, proprio in virtù di tanto, l’aveva resa un ‘sinonimo parziale’ della prima.

“La differenza principale fra il concetto di etnia e quello di razza è che l'etnia si basa sulla storia comune di una determinata popolazione, resa più forte dall'avere una stessa religione, una stessa lingua e cultura, mentre le catalogazioni razziali sostengono di basarsi su comuni tratti fisici e genetici”: è la formula che si trova in ogni dizionario o ricercando in rete. Eppure, alla luce di molti, recenti, accadimenti, è evidente che non sia più così.

Nel linguaggio comune – ma ancor più in quello mediatico - “etnia” è usata per indicare popolazioni immigrate o minoranze che, rispetto alle maggioranze, abbiano diversi costumi, lingua, cultura, anche tratti somatici, ma – soprattutto – provenienza. Un eufemismo, insomma, che in realtà nasconde quella stessa valenza dispregiativa che in passato si attribuiva al termine ‘razza’.

“Etnico”, dunque, non è più un aggettivo che esprime soltanto differenze culturali, ma– in maniera subdola – serve anche a ‘classificare’, a individuare gerarchie di carattere sociale, economico, politico e, in finale, a mascherare una condizione di subordinazione o di emarginazione.

Se tanto è vero, allora può aver fondamento la tempesta di critiche che si è abbattuta, nei giorni scorsi, sullo scivolone della “sostituzione etnica”: basta mutare l’impiego d’una piccola parola per vedere completamente sovvertito l’ordine tra significante e significato.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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