Il nome del quartiere dove hanno sede i palazzi del Governo degli Stati Uniti potrebbe prestarsi facilmente - dopo i recenti episodi cui ha fatto da scenario - a diventare il titolo di una nuova serie TV, in cui l’occupazione di un luogo di potere (nello specifico l'edificio con cupola del Campidoglio) potrebbe fare da ambientazione alla narrazione di vicende individuali e relazioni personali, forse replicando, chissà, il successo de “La casa di carta”.
Se non fosse stata un’assurda realtà, costata persino la vita a cinque persone, ciò che è accaduto lo scorso 6 gennaio sarebbe potuta difatti sembrare la scena clou d’un film, l’epilogo surreale e drammatico d’un pretenzioso piano - la "Save America March"-, l’incontrollata degenerazione d’una insana protesta messa in atto da una massa di fanatici “al soldo” (chissà, forse pure…) d’un altrettanto folle e borioso incitatore.
Qualcuno ha definito Donald Trump (che, invero, attraverso i suoi modi di fare, nel corso del suo mandato presidenziale di segnali preoccupanti circa la sua natura ne aveva già rivelati a sufficienza) la più grande catastrofe mai capitata all’America dall’11 settembre 2001: con quei suoi modi rozzi, arroganti, razzisti, la sua discutibile moralità, il suo opinabile senso civile e sociale, ha finito per diventare l’antitesi del sogno americano, demolendo quell’ideale per cui è attraverso il duro lavoro, il coraggio e la determinazione che si può giungere a configurare una società migliore e la prosperità economica, a vantaggio d’una rilevanza prevalente riconosciuta, invece, alla prepotenza, alla violenza e all’ignoranza.
Alla stregua d’un ricco ragazzino annoiato e viziato, più che rivestire un ruolo sembrava che giocasse ad impersonarlo, che si divertisse a dimostrare la sua grandezza ed il suo potere sfidando rivali della sua stessa pasta, parimenti incuranti delle conseguenze delle proprie azioni, dimentichi che la loro guerra dei bottoni non avrebbe comportato la caduta di soldatini di piombo dipinti o di pedine su un tabellone del Risiko, ma di vite, di persone reali.
S’è fatto vanto delle sue idee, tramutandole, purtroppo, troppo spesso in azione e finendo così per minare pericolosamente la democrazia: ha chiuso frontiere, ha elevato muri anziché abbatterli, s’è fatto beffe della cura per l’ambiente, ha mostrato disinvoltamente le sue simpatie per slogan fascisti, condotte neonaziste, atteggiamenti suprematisti, ha attentato alla sicurezza dell’umanità intera.
Infine, ancora una volta In linea col suo fare tragicamente in bilico tra il dispotico e il puerile, ha battuto i piedi e strepitato nel tentativo estremo di restare aggrappato ai suoi “giocattoli”, come ogni presuntuoso incapace di accettare una sconfitta, gridando alla cospirazione, al grande imbroglio delle elezioni. In un crescendo quasi rossiniano ha dapprima chiesto, poi ordinato, infine intimato di negare e rovesciare d'imperio e con la forza il risultato del voto popolare, incitando da ultimo la folla accorsa (già preparata!) al suo discorso a Capitol Hill a lanciarsi all’assalto del simbolo delle istituzioni del suo/loro Paese: «Non vi riprenderete mai il nostro paese con la debolezza. Dovete esibire forza e dovete essere forti. Siamo giunti qui per chiedere che il Congresso faccia la cosa giusta e che conti solo gli elettori che sono stati nominati legalmente. So che ognuno di voi presto marcerà sul Campidoglio per far sì che oggi la vostra voce, pacificamente e patriotticamente, venga ascoltata. [...] Combattete. Combattiamo come dannati. E se non combatterete come dannati, per voi non vi sarà più un paese.»
Il resto è già storia: un manipolo di ultras avvinazzati, guidati da uno “sciamano” con le corna, il viso dipinto e il torso marchiato da tatuaggi dalla simbologia inequivocabile, che ora in carcere reclama solo cibi biologici rifiutandosi altrimenti di mangiare, invade (senza che sia ancora chiaro come abbiano fatto…) la sede del Congresso, lasciandosi immortalare da selfie e foto-ricordo, mentre asportano fieri il leggio della speaker della camera o svaccano – da bovari quali sembrano – sulla sua scrivania.
A parte questo epilogo così marcatamente pilotato e tuttavia compatibile con lo stile di esaltati nemici del mondo libero – e, in quanto tali, filotrumpiani - quello che lascia perplessi è che Trump, sebbene sconfitto, ha totalizzato 74 milioni di voti, quasi 5 milioni in più di quelli che prese Obama quando vinse le elezioni del 2008. Non solo: dalle precedenti elezioni alle ultime, i suoi voti sono aumentati di 11 milioni. Certo, la nuova modalità del voto “per corrispondenza” ha favorito anche quello di tanti che nella precedente tornata non si erano espressi; ma quel che sorprende ancor di più è che l’aumento dei voti si sia collocato tra coloro che dalla politica del biondo presidente avrebbero dovuto discostarsi sentendosene minacciati: latinos, asiatici, afroamericani. Il risultato paradossale è che, alla Camera, i Repubblicani non solo non hanno perso seggi ma li hanno addirittura aumentati mentre, al Senato, per poco non si sono aggiudicati la maggioranza all’esito dei ballottaggi in Georgia finiti col vantaggio dei democratici.
Come a dire, allora, che in fondo l’estremismo paga: di fronte alla minaccia d’un pericolo (la deriva incondizionata verso il sovranismo e tanti altri –ismi poco rassicuranti), si innesca una inconsueta mobilitazione, tanto dal lato degli avversari, che si attivano per contrastare l’antagonista e conquistare la vittoria (anche i democratici hanno difatti ottenuto molti più voti di quanti non ne avessero mai presi), che da quello dei sostenitori, anche i più insospettabili.
Resta tuttavia da verificare, nel medio periodo, la persistenza della fedeltà di questi ultimi, se sia tale da resistere nonostante manchi all’ormai ex-Presidente il tempo di far dimenticare quest’estremo gesto (che, non solo gli è costato l’impeachment ma persino l’essere messo al bando dai social, gli stessi che prima si gloriavano d’avergli concesso facoltà di parola concedendogli licenze che, ad un comune cittadino, sarebbero costate la testa!) e di ritinteggiare di candore la propria facciata per riconquistare i consensi incerti, o se, viceversa, saranno pronti a cambiare bandiera con la stessa disinvoltura con cui qualcuno di nostra conoscenza ha già cambiato mascherina…