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Déja vu

Autore: Ester Annetta
L'8 maggio 1985, in occasione del quarantesimo anniversario della fine della Seconda Guerra in Europa, l'allora Presidente della Repubblica federale di Germania, Richard von Weizsäcker, stupì il mondo intero con uno storico discorso. Dichiarò che il giorno della fine della guerra in Europa non era stato un giorno di sconfitta per i tedeschi ma, piuttosto, un "giorno di liberazione dal sistema disumano della tirannia nazionalsocialista".

"La colpa, come l'innocenza, non è collettiva, ma personale", aveva ancora dichiarato; tuttavia, richiamando la “pesante eredità” lasciata dagli antenati alla nuova generazione, aveva così esortato: “Tutti noi, colpevoli o no, giovani o anziani, dobbiamo accettare il passato. Siamo tutti condizionati dalle sue conseguenze e responsabili per ciò che è avvenuto.”

È un gran segno di valore, per un Paese, riconoscere i propri errori ed accettare le responsabilità morali nella propria storia, senza tuttavia far gravare sulle generazioni successive - quasi fossero un “peccato originale” - i crimini contro l’umanità perpetrati nel proprio passato. Ciò soprattutto ove si impegni attivamente nel difendere i diritti umani affinché nessuna forma di prevaricazione si ripeta.

Ed è dai tempi di Adenauer – “il vecchio” e saggio Cancelliere che, dopo il secondo conflitto mondiale, portò la Germania Ovest verso la democrazia, recuperando anche il rispetto internazionale - che le istituzioni tedesche hanno affrontato il tema della colpa per lo sterminio degli ebrei come mai nessun Paese ha mai fatto nella storia dell’Occidente. Anzi, oggi è proprio la Germania – insieme a Israele – uno dei Paesi che più di ogni altro tiene accesa la memoria della Shoah.

Un segno tangibile di questa volontà lo si ritrova nel Memoriale dell’Olocausto di Berlino, la Vergangenheitsbewältigung (che letteralmente significa “superamento del passato”), monumento simbolo che rappresenta per il popolo tedesco la riflessione critica sul periodo nazista – e sull’Olocausto in particolare - con l'intento sia di trarne un monito sia di accettare il proprio passato, superando quel "complesso di colpa storico" che ha continuato a connotare la nazione tedesca. E ciò senza voler giungere ad una rimozione negazionista del passato, piuttosto giungendo ad una sua consapevole accettazione.

In quest’ottica viene perciò da guardare ad un episodio di questa attuale guerra russo-ucraina, raccontato dai notiziari nei giorni scorsi.
Galina Ulyanova, Larisa Dzuenko e Tatyana Zhuravliova, sono tre donne ebreo-ucraine 83enni, abitanti a Kiev.

Perseguitate, da bambine, dalla Germania nazista, erano riuscite a scampare all’Olocausto e a ricostruire le loro vite, riponendo in un angolo della memoria il ricordo di quel loro triste passato.

Quando, un mese fa, le bombe hanno iniziato a cadere sulla loro città, quei ricordi sopiti si sono risvegliati: “E’ stato un orribile déja vu”, ha raccontato Tatyana Zhuravliova, medico in pensione, ritrovando le stesse paure e le stesse sensazioni - che credeva ormai dimenticate - di quando, da bambina, i nazisti sferravano attacchi aerei su Odessa, la sua città natale.

"Ora sono troppo vecchia per correre nei bunker, – ha proseguito - così sono rimasta nel mio appartamento e ho pregato che le bombe non mi uccidessero".

Tatyana e le altre due sue coetanee sono state così prese in carico dalla Conferenza sulle rivendicazioni materiali ebraiche contro la Germania (un’organizzazione, con sede a New York, che fornisce assistenza ai sopravvissuti all'Olocausto in tutto il mondo) che, insieme ad un altro gruppo di anziani malati e costretti a letto - 14 in tutto -, le ha portate in salvo, e sistemate, dopo un viaggio di 26 ore, in una casa di cura. A Francoforte, Germania.

Nella logica dantesca, se fosse una pena, sarebbe per contrappasso. Invece è tutt’altro, una sorta di opportunità, che sa di perdono e di riscatto.

In posa davanti ad un tavolo ornato di tulipani giallo-rossi, le tre donne, nel mentre si raccontano, posano serene, immortalate in una foto che restituisce dignità ai loro anni ed alla loro sofferenza.

"Quando ero piccola, sono dovuta fuggire dai tedeschi con mia madre in Uzbekistan – ha ricordato Ulyanova - Non avevamo cibo ed ero terrorizzata dai grossi ratti che si vedevano per la strada. Per tutta la vita ho pensato che i tedeschi fossero malvagi, ma ora sono stati i primi a tenderci la mano e a salvarci".

"Sembra che questo Paese abbia imparato dal passato e stia cercando di fare qualcosa di buono per noi ora".

Che la volontà di riscatto d’un popolo – che un tempo è stato un nemico - si unisca ora alla solidarietà, nel momento in cui un’altra guerra sta imperversando, è una condotta esemplare, che può valere almeno a scolorire la macchia indelebile di un triste passato.

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