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Dell’oppressione e della guerra

Autore: Ester Annetta
In ogni guerra ci sono aggressori e aggrediti.

Non è infrequente, però, che risulti dubbio identificare gli uni o gli altri con assoluta certezza, specie se le ragioni e le argomentazioni utilizzate per razionalizzare il conflitto e date in pasto all’opinione pubblica siano scientemente ricalibrate per distorcere una visione altrimenti chiara e lineare. Che poi è ciò che favorisce il formarsi di diverse idee ed il nascere delle conseguenti fazioni filopartiste, con la consueta parata di slogan, manifesti e dimostrazioni che l’accompagnano.

Il tutto per il tempo – più o meno lungo – in cui la vicenda fa ancora notizia, prima che la ‘ricorrenza’ la renda abitudinaria e si generi quell’effetto assuefazione per cui, dalla partecipazione viva e sentita, ci si scioglie progressivamente ed inesorabilmente nell’indifferenza.

È accaduto così con il conflitto russo-ucraino; accadrà ancora con quello israelo-palestinese, all’indomani dell’ultima recrudescenza d’uno scontro che da quasi un secolo si alterna tra il letargo e la riconsiderazione dell’opinione pubblica, dei media e (il che è peggio) della comunità internazionale.

Dopo i fatti di sabato scorso, Israele ha indetto lo stato di guerra.

E lo ha fatto adattandosi addosso i panni dell’aggredita.

Eppure la sua guerra contro i palestinesi è iniziata più di 75 anni fa e da allora non si è mai fermata. Ed è iniziata da aggressore.
Stavolta è la Storia a raccontarlo, inequivocabilmente, partendo da una data ben precisa, quando, per una sorta di scrupolo di coscienza nei confronti di un popolo che il nazismo aveva decimato con l’Olocausto, le Grandi Nazioni ritennero opportuno un ristoro. E lo concretizzarono nella concessione di uno Stato, affidando ad un tratto di penna vergato su una cartina la definizione dei contorni del suo territorio, smembrando quello della Palestina, senza tener in debito conto anche la sua identità.

Era il 1947, e la neonata ONU, con la Risoluzione 181, stabilì il Piano di partizione della Palestina: il 55% del suo territorio sarebbe stato destinato a uno Stato ebraico; il 44% a uno Stato arabo; Gerusalemme, un luogo internazionale.

Non era un equilibrio possibile e che non potesse reggere fu subito chiaro, quando, appena un anno dopo, in risposta alle proteste dei Palestinesi, degenerate in conflitto, gli ebrei proclamarono la Dichiarazione d’indipendenza israeliana. La conseguenza fu che circa 700mila palestinesi furono cacciati dalle loro terre e trasferiti in campi profughi allestiti nei Paesi vicini, dove tuttora vivono i loro discendenti. Quell’evento fu chiamato nakba, la catastrofe.

Ma non fu tutto.

Nel 1967 un nuovo scontro – noto come la guerra dei sei giorni – contrappose Israeliani e Palestinesi; al fianco di questi ultimi si schierarono altri paesi arabi (Egitto, Siria, Giordania). Israele vinse, espandendo così i suoi confini ben oltre i territori riconosciutile dall’ONU nel 1947: Gerusalemme Est, Cisgiordania, Gaza, la Penisola del Sinai, le alture del Golan furono presto occupati da insediamenti israeliani, mentre i palestinesi continuarono ad essere confinati entro territori dai margini sempre più ristretti.

Intanto era nata l’Organizzazione per la liberazione della Palestina che si proponeva di condurre in prima persona la lotta contro gli israeliani senza l’aiuto degli stati arabi. Ma il suo leader Yasser Arafat aveva intuito che la via migliore da percorrere era quella della pace, e in quella direzione si mosse fino ad arrivare nel 1993 alla firma di uno storico accordo con il premier israeliano Yitzhak Rabin: Israele e l’OLP si riconoscevano reciprocamente e, inoltre, veniva dismesso il controllo di alcuni settori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza con l’intento di giungere alla creazione di uno Stato palestinese.

Erano rimasti però fuori dall’accordo questioni fondamentali - lo status di Gerusalemme, che tanto israeliani che palestinesi rivendicavano come capitale; la rimozione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania; il ritorno in Israele dei profughi palestinesi espulsi nel 1948 – che inevitabilmente determinarono il fallimento del processo di pace.

Anche varie risoluzioni dell’ONU si susseguirono dalla guerra dei sei giorni in poi per contestare a Israele l’estensione dei suoi territori e chiedere “il rispetto e il riconoscimento della sovranità e dell’integrità territoriale palestinese”. Tra di esse, la risoluzione 478 del 1980, il cui testo prevedeva la censura della cd. legge Fondamentale approvata dalla Knesset (il parlamento monocamerale israeliano) che proclamava Gerusalemme “completa e unita” capitale dello Stato di Israele. E, ancora, la Risoluzione 2334 del 2016, nella quale venivano nuovamente definiti illegali gli ultimi insediamenti israeliani nei territori palestinesi.

Il conflitto è così andato avanti, assumendo sempre più i contorni di una guerra asimmetrica, combattuta tra un esercito regolare – quello israeliano -, foraggiato da finanziamenti militari statunitensi e coperture diplomatiche varie, che hanno favorito il rafforzamento di un autentico regime di apartheid (a riprova, anche il tanto osannato Accordo di Abramo - firmato nel 2020 tra Trump, il primo ministro israeliano Netanyahu e i rappresentanti degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein -, pur nell’intento di apparire una sorta di piano di pace raffazzonato, di fatto non ha contemplato nei negoziati i palestinesi); dall’altro, scombinate e malassortite milizie armate – quelle palestinesi – che oggi hanno il loro centro di potere in Hamas, l’organizzazione sunnita di estrema destra nata nel 1987 e considerata di stampo terroristico da gran parte della comunità internazionale. Un’entità estremista, già contraria a quel processo di pace iniziato da Arafat giacché, secondo il suo statuto, “non esiste soluzione alla questione palestinese se non nel jihād”.

Negli ultimi sedici anni il governo israeliano ha, infine, letteralmente segregato i palestinesi nella striscia di Gaza, la fettuccia di territorio palestinese di 40 x10 km dove vivono ammassati 2,3 milioni di persone. Lo ha fatto imponendo un blocco militare aereo, marittimo e terrestre, di fatto imprigionandoli in quella che ormai comunemente si definisce “una prigione a cielo aperto”. E regolarmente vengono massacrati; i bambini –che spesso contano più bombardamenti subiti che anni vissuti - in piena notte vengono tirai giù dai loro letti e portati senza accusa nelle prigioni militari israeliane; interi villaggi vengono dati alle fiamme e così anche orti e frutteti.

Se questa – narrata in estrema sintesi, estrapolando gli elementi principali da un quadro ben più complesso e affollato di protagonisti – è la premessa che attende all’attuale condizione di occupazione militare e supremazia che gli israeliani continuano ad imporre sui palestinesi, in un conflitto ormai cronicizzato, è chiaro che una risposta, con tempi e modalità variabili, c’è sempre da aspettarsela.

E stavolta è stata più severa che mai.

Alla violenza ha risposto una violenza ancora più acuta; all’orrore, altro orrore.
All’alba di sabato 7 ottobre Hamas ha sferrato il suo attacco e lo ha fatto nella maniera più bieca e crudele, che ha documentato trionfalmente riempiendo il web di immagini spietate che testimoniano tutto l’odio e la ferocia della sua irruzione.

E allora tutti a condannarla, a recriminare, come se l’attacco condotto da quella novella “Crociata dei Pezzenti” – che combatte con deltaplani, pickup, e razzi obsoleti – fosse un’azione assoluta e non la risposta a chi, sotto le mentite spoglie di stato democratico, persevera da decenni, impunito, nella sua condotta prepotente, razzista, assassina.

Con ciò non si vuole affatto giustificare la condotta di Hamas, sia chiaro: parliamo pur sempre del lato oscuro della resistenza palestinese, di un’organizzazione che, negli anni, ha massacrato a sua volta, a centinaia, palestinesi ritenuti collaboratori di Israele e che sabato scorso si è scagliata contro vecchi, famiglie e ragazzi che ballavano durante un rave. Un modo certamente inaccettabile di combattere contro un invasore.
E, tuttavia, resta una motivazione di fondo, ineludibile: ovunque ed in qualunque modo gli oppressi cercheranno sempre di riguadagnare la loro libertà.

Il primo passo dovrebbe allora essere un impegno universale ad impedire che ciò accada con le armi e col sangue, giacché resistenza non può equivalere a violenza.

Ma lo stesso deve valere per gli oppressori, la cui condotta mascherata va parimenti svelata.

Altrettanto, andrebbero bandite le complicità di quei governi che sposano la causa di chi, a seconda della propria convenienza, ritengano ‘aggredito’ e pertanto meritevole di sostegno, finanziario e armato.

L’alternativa è una pace impossibile.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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