22 ottobre 2022

Due pesi e due misure

Autore: Ester Annetta
A Via Campo di Fossa, a L’Aquila, c’era una palazzina. Era stata costruita negli anni sessanta come palazzina privata, per poi diventare, negli anni ottanta, un edificio pubblico destinato a “Casa dello Studente”, gestita dalla Regione Abruzzo per il tramite dell'Azienda per il diritto agli studi universitari (Adsu).

Come tanti altri edifici, crollò alle 3:32 del 6 aprile 2009 a causa della violentissima scossa di terremoto che segnò la punta più alta dello sciame sismico avviatosi a dicembre dell’anno precedente e terminato tre anni dopo. Sotto le sue macerie restarono uccise 24 persone.
Pare che l’edificio presentasse già in fase di realizzazione difetti tali da far intuire il rischio di possibili danni strutturali, ed anche in fase di restauro erano stati commessi vari errori, in aggiunta al mancato collaudo statico.

Per tali motivi - tutti poi effettivamente accertati – il Tribunale di L’Aquila nel 2013 aveva processato con l’accusa di omicidio colposo, disastro colposo e lesioni colpose alcuni tecnici (per via della loro negligenza nell’effettuare gli interventi ed i controlli necessari sulla palazzina) nonché i componenti della Commissione nazionale per la previsione e la prevenzione dei grandi rischi, che si era riunita sei giorni prima del terremoto e aveva dato rassicurazioni – poi rivelatesi infondate - alla popolazione.

Tra questi ultimi vi erano il sismologo Enzo Boschi, allora direttore dell'Istituto Nazionale di Geofisica (condannato in primo grado ma assolto in appello) e l’ingegner Bernardo De Bernardinis che ottenne, al termine dei tre gradi di giudizio, una condanna a due anni (con pena sospesa) ma soltanto in relazione alle dichiarazioni rilasciate nell'intervista televisiva che aveva preceduto quella riunione e nella quale aveva raccomandato agli aquilani di restare nelle loro case perché non c’era pericolo.

Qualche tempo dopo lo stesso De Bernardinis fu nominato Presidente dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA). Ma questa è un’altra storia.

Al processo penale hanno poi fatto seguito i giudizi civili per l’ottenimento del risarcimento dei danni, promossi dai familiari delle vittime.

Un primo giudizio si è concluso (in primo grado) nel 2021 e ha riguardato la richiesta risarcitoria avanzata dai genitori di due studentesse ventenni vittime del crollo, Maria Urbano e Carmen Romano. In quella circostanza il giudice del Tribunale di L’Aquila Emanuele Petronio ha ritenuto che “mancando di conoscenze tecnico-specialistiche, la popolazione non aveva alcun elemento per poter ritenere che a una prima scossa ne sarebbe potuta seguire una successiva più potente a così breve distanza temporale” escludendo di conseguenza qualunque corresponsabilità da parte delle vittime per aver deciso di restare a casa la notte di quel 6 aprile.

Del tutto opposta è invece la sentenza pronunciata solo pochi giorni fa dalla stesso Tribunale ma da un diverso giudice, Monica Croci, che, nel giudizio risarcitorio intentato dai parenti di Ilaria Rambaldi (altra giovane vittima del crollo della stessa palazzina) - ove sono stati chiamati in causa, oltre agli eredi del titolare della ditta costruttrice e al condominio, anche il Comune e i Ministeri degli Interni (a cui fanno capo Prefettura e Regione) e quello delle Infrastrutture e dei Trasporti (a cui rispondono Genio civile e Provincia) - ha invece riconosciuto fondata l’eccezione di concorso di colpa delle vittime sollevata dall’Avvocatura dello Stato (che difendeva i Ministeri) “costituendo obiettivamente una condotta incauta quella di trattenersi a dormire – così privandosi della possibilità di allontanarsi immediatamente dall’edificio al verificarsi della scossa – nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella serata del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del 6” Conseguentemente ha stimato tale concorso di colpa “tenuto conto dell’affidamento che i soggetti poi defunti potevano riporre nella capacità dell’edificio di resistere al sisma per essere lo stesso in cemento armato e rimasto in piedi nel corso dello sciame sismico da mesi in atto, può stimarsi nella misura del 30 per cento. Ne deriva che la responsabilità per ciascun Ministero è del 15 per cento e per il residuo 40 per cento in capo agli eredi del costruttore”.

Il 30%. Cioè un terzo.
La vittima – anzi le vittime, giacché con Ilaria è morto anche il suo fidanzato che quella notte si era fermato a dormire da lei perché la giovane aveva paura - definiti freddamente nella sentenza “i soggetti poi defunti” sarebbero stati solo poco meno (un 10% appena) colpevoli della ditta costruttrice della palazzina.

Si è già detto e scritto tanto sull’aberrante portata di una tale decisione che di certo non può non procurare sconcerto, tanto più se si considera la modalità di quelle morti, la cui drammaticità si pretenderebbe di sminuire o raffreddare impiegando formule gelide e distaccate, in ossequio ad un protocollo linguistico che dimentica la dignità delle persone.

Tuttavia una considerazione – almeno d’opportunità – va ancora fatta: se si mettono a confronto le diverse pronunce dei due giudici, pare grottesco che la giustizia, il cui simbolo è una bilancia in perfetto equilibrio, possa poi ritrovarsi ad adottare due pesi e due misure per valutare situazioni simili.

Ma ancor di più è spaventoso che, con tutta evidenza, qualche volta la misura non utilizzata è l’umanità.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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