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Fare la pace in tempo di guerra

Autore: Ester Annetta
Chi simpatizza o pratica il buddismo, probabilmente conoscerà Pema Chödrön, monaca buddista tibetana americana, autrice tra l’altro del testo "Praticare la pace in tempo di guerra. Il buddhismo e la non-violenza".

Partendo dalla premessa che, pur desiderando vivere in pace, paradossalmente l’uomo impiega la guerra come strumento per raggiungerla (concetto, questo, peraltro già enunciato nel IV secolo d. C. dallo scrittore romano Publio Vegezio Renato con l’espressione “Si vis pacem, para bellum”), l’autrice evidenzia come tale criterio valga in ogni contesto, più o meno ampio: dai rapporti familiari a quelli tra Stati. L’idea centrale è che pace e guerra hanno entrambe origine nel cuore dell’uomo ed è dunque il modo in cui gli individui reagiscono allo stress della vita quotidiana a determinare – amplificandosi poi su larga scala – il perpetuarsi di una cultura di violenza o la creazione di una cultura della compassione. Ovviamente, trattandosi di un testo improntato sulla “dottrina di salvazione” buddista e perciò permeato dei suoi principi, individua nella meditazione il mezzo attraverso cui si può diventare persone più consapevoli e compassionevoli, aprendosi perciò alla pace.

Ho voluto scomodare il buddismo solo come premessa per introdurre la riflessione su un episodio che, pur non avendo nulla di altrettanto spiritualmente elevato, può tuttavia valere come spunto per confermare l’asserzione che ogni conflitto, di qualunque portata sia, nasce da un sentimento, e riuscire a governare quel sentimento spiana la strada verso la riconciliazione.

Il che, in un tempo dominato da una guerra che ci affligge sebbene non ci coinvolga sul campo, è senz’altro un messaggio positivo.

La vicenda è quella di Fedez che, dopo una lunga “inimicizia” - generata da una controversia dalle evidenti ricadute economiche e durata quattro anni – ha deciso di riappacificarsi col suo collega J-Ax, e lo ha fatto in maniera eclatante: dapprima, affidando ad un lungo post la lezione morale insita nel suo gesto: “Abbiamo imparato” – ha scritto – “che è facile lasciarsi le persone alle spalle e che invece per mettere da parte l’orgoglio e tornare a riabbracciarsi anche quando ci si è fatto del male ci vuole coraggio. In questo momento storico dove essere divisi è normale e avere nemici è quasi uno status symbol, archiviare le differenze e focalizzarsi sui momenti belli vissuti insieme forse è la cosa più giusta per vivere un’esistenza serena”; poi, annunciando, insieme all’amico ritrovato, il progetto “LoveMi”, un mega concerto gratuito di beneficenza che si terrà a Milano, in Piazza Duomo, il prossimo 28 giugno e che vedrà la partecipazione di numerosi artisti, con lo scopo di raccogliere fondi destinati a finanziare la fondazione Tog – Togheter to go, per ampliare il centro di eccellenza che offre cure riabilitative gratuite ai bambini con gravi patologie neurologiche.

Tutto molto bello; tutto molto toccante.

Quello che però maggiormente salta agli occhi è che tutto questo sia accaduto proprio quando Fedez ha scoperto di avere un raro tumore al pancreas. È stato allora, di fronte alla presa di coscienza della sua finitezza, della sua impotenza di fronte a quei dispetti dell’esistenza che dimostrano quanto fama e ricchezza siano solo strumenti di vanità e non di salvezza, che il rapper ha rivisto le sue priorità, compiendo un passaggio che ricorda, in qualche misura, il ruolo salvifico della meditazione suggerito dalla lettura di Pema Chödrön.
Come egli stesso ha rivelato in una delle tante dichiarazioni (che ormai rilascia con cadenza ristretta, quasi avessero una funzione catartica), mentre prima il suo massimo obiettivo era raggiungere il tetto di 200milioni di euro sul suo conto bancario, continuando ad interpretare il personaggio del comunista col Rolex, ora ha preso consapevolezza di valori meno venali, rivedendo di conseguenza le precedenze: la famiglia, gli affetti, gli amici.

Mi verrebbe allora da trarre la conclusione che sia la paura il vero motore d’ogni revisione di comportamento, che sia essa l’emozione sovrana da cui discende la capacità degli individui di rendersi “più consapevoli e compassionevoli”.

È difatti ricorrente che, proprio di fronte al timore della fine, quando non si ha più dominio di orizzonti né di tempo, scatta quel bisogno di recuperare quanto sia stato più o meno consapevolmente messo da parte: si cercano gli amici perduti, si riallacciano i fili di relazioni che s’erano allentati, si cerca di ricompattare un quadro finito di tutto ciò che conta per paura che qualcosa resti definitivamente in sospeso ed incompiuto.

Viene allora da domandarsi: perché attendere? Perché rimandare? Perché affidare alla paura il compito della riscoperta dei valori quando potrebbe, peraltro, essere troppo tardi?

La risposta è quasi scontata: l’egoismo, la prepotenza, la vanità sono motori di condotta inizialmente ben più potenti. Ed è solo quando si profili la minaccia di un male “subendo” che quello “infiggendo” si disarma, restituendo l’uomo alla sua miseria ed alla sua impotenza.

Dovremmo tenerla sempre ben in mente questa lezione; agire “in prevenzione”, privilegiando il sentimento della paura rispetto a quello dell’onnipotenza, che non vuol dire restare confinati nel proprio piccolo mondo ma, al contrario, aprirsi ai propri simili, riconoscendo in essi gli stessi timori e gli stessi limiti.

Ciò aiuterebbe a costruire ponti anziché trincee, a tendere la mano piuttosto che a premere un grilletto, a scoprirsi non indefettibili ma illuminati dal senso d’appartenenza ad una umanità fragile e caduca, che per quel segmento d’esistenza che spetta ad ognuno, merita d’essere vissuta con pienezza, consapevolezza e pace.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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