Due sono bambini: uno talmente piccolo da indossare quelle tutine monopezzo, d’uso indistinto tra giorno e notte, che in genere vestono nel primo anno di vita; l’altro, appena più grande, sembra dormire, a pancia in su, scalzo, con le braccia allagate, nella posa tipica dell’abbandono al sonno più sereno e benefico. La terza è una donna, avvolta in una di quelle stoffe sgargianti che sono insieme vestito, borsa, porta-bebè e che inequivocabilmente ne connotano la provenienza.
I loro corpi giacciono riversi sulla spiaggia, in parte ricoperti dalla sabbia che, tutt’intorno, lisciata dalla risacca, non trattiene solchi né impronte. Sono gonfi, bluastri, segnati dai primi tratti della decomposizione.
Giacciono abbandonati sulla sponda del mare di Zuwara in Libia.
Non hanno nome, non hanno storia, né si sa da dove vengano e quando siano morti. È certo solo che appartenevano all’equipaggio di uno dei tanti gommoni che continuano a sfidare i capricci del Mediterraneo, con il loro carico di vite e di speranze, spesso annegate tra i flutti ancor prima d’arrivare nella “terra promessa”.
Forse sono rimasti giorni su quella battigia prima che qualcuno si accorgesse delle loro misere spoglie ed allertasse gli interventi.
Invisibili, anonimi, dimenticati.
“A nessuno importa di loro”, ha scritto in un Tweet Oscar Camps (uno dei fondatori della Open Arms, la Ong spagnola che opera nel Mediterraneo prestando soccorso ai migranti) sbattendo in faccia al mondo una verità difficile e cattiva, e rincarando la dose con un’esplicita accusa di colpevolezza: «I governi europei, e anche molta informazione, dicono spesso che queste persone “sono morte”. In realtà, sono state “fatte morire”. Non si tratta di “incidenti” o di “disgrazie” imprevedibili. L’Europa ne dovrà rispondere. Perché queste tragedie si ripetono sotto lo sguardo delle autorità nel Mediterraneo», e responsabili della loro morte non sono solo i trafficanti ma anche “quei governi che con la mafia libica hanno negoziato”, legittimando così le organizzazioni criminali, “in cambio di qualche barile di petrolio in più e di qualche migrante in meno. Senza chiedere in cambio neanche il minimo rispetto dei diritti umani fondamentali nei campi di prigionia”.
Nulla nemmeno è importato di un giovane che un nome invece ce l’aveva: Moussa Balde, morto suicida a 23 anni nel Centro di permanenza per i rimpatri di Torino qualche giorno fa.
Qualche settimana prima era stato aggredito a Ventimiglia da tre uomini che l’avevano preso a sprangate mentre chiedeva l'elemosina, e non perché aveva provato a rubare un cellulare, come invece avevano dichiarato. Era così finito in ospedale e, dopo le dimissioni, era stato trasferito nel Centro.
“Perché sono qui?” ha continuato a domandare all’avvocato d’ufficio che gli era stato assegnato; non voleva restare in quella struttura, sapendo che da lì sarebbe stato rimpatriato in quella terra da cui – chissà a quale costo - era fuggito alla ricerca di un diverso futuro e di una vita migliore.
Nessuno si è preso cura di quella sua paura né della sua fragilità e perciò, senza una parola – né sua né d’altri – Moussa la risposta al suo perché se l’è data da solo, scegliendo di conseguenza anche l’unica soluzione che dev’essergli sembrata percorribile. Si è dunque tolto la vita, impiccandosi con le lenzuola recuperate proprio nella sua stanza del Centro, stazione di partenza d’un indesiderato viaggio di ritorno.
Di Amit Biran invece si sa tutto.
Un giorno di qualche anno fa il giovane israeliano aveva lasciato la sua terra, con la sua guerra, le morti e i razzi che tuttora la devastano, in cerca d’un posto sicuro dove studiare, lavorare, mettere su famiglia con Tal e offrire giorni sereni - non scanditi dal boato delle bombe - ai loro bambini.
Era tra quelli che “ce l’avevano fatta”: era diventato medico, nel nostro Paese, e quella famigliola bella e serena che tanto desiderava l’aveva costruita davvero. Nel cuore sempre la sua gente e la sua terra, tanto che collaborava con la comunità ebraica di Milano come volontario, occupandosi della sicurezza degli studenti nella scuola frequentata anche dai suoi figli.
Anche Amit era un esule, un migrante. Con i morti senza nome della spiaggia di Zuwara e di Moussa aveva in comune il suo destino di fuggitivo, quello che sempre mette davanti ad un bivio tra la vita e la morte.
Solo che Amit la morte non l’ha trovata lungo il viaggio della speranza né per difetto d’accoglienza nella terra dov’era arrivato. L’ha trovata invece in un giorno di sole e di vacanza, sulla funivia del Mottarone, assieme ad uno dei suoi due bambini, a Tal e ai nonni di lei, che da Israele erano arrivati da poco in Italia con l’intento di restarvi un po’, lontani dal fiato di morte quotidiano respirato nella loro terra.
Con tutta la compassione del caso, il paradosso però è proprio questo: che la quotidianità delle storie di fughe da guerra e povertà resti sullo sfondo di vicende divenute ormai talmente ricorrenti da non fare più notizia, da lasciare quasi indifferenti, da scivolare sulle coscienze lasciando nell’anonimato le vittime, mentre, al contrario, che una qualunque di quelle stesse storie si presti a diventare lo spunto o l’aggravante per calcare il peso d’una diversa tragedia, non consumata tra i flutti del mare né nei Campi della disperazione.
Non rende diversa la morte il luogo di provenienza della vittima migrante, né importa se il motivo della sua fuga sia stata la guerra o la povertà e nemmeno quale fosse il suo “prima”: una vita ormai realizzata o una quotidianità fatta ancora di senti.
E non c’è tragedia solo dove si conoscano nomi e storie: anzi, è proprio la triste consuetudine dell’indifferenza e dell’anonimato la vera tragedia.
Ovunque ci siano fuga, solitudine, paura e dolore è lì che deve affondare la coscienza e riconoscere i bisogni. Ed è lì che è necessario soccorrere le necessità che vi sono legate, finché le vittime che le reclamano sono ancora in vita.
Gli epitaffi sono solo un’ipocrisia.