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Genitori giudici

Autore: Ester Annetta
Maria (il nome è di fantasia) ha 15 anni. Vive in un piccolo paese del Sud, con la madre, i tre fratelli (uno maggiore e due più piccoli) ed il patrigno. Una vita semplice e modesta, che, com’è peraltro proprio della sua età, sprona il suo immaginario verso l’idealizzazione di un futuro più avvincente e luminoso. Fantasticare, anzi, è per lei una forma di evasione, una sorta di terapia necessaria anche a staccarla da un segreto troppo grande e spaventoso che la tormenta.

Lo ha confidato soltanto al suo amico del cuore, che l’ha sollecitata più volte a parlarne con sua madre, e con una conoscente adulta, che invece non le ha creduto e, anzi, le ha intimato di non farne parola con alcuno.

Maria perciò ha continuato a logorarsi in quella sua lotta interna, non meno pesante e drammatica dell’altra – fisica - che quasi ogni giorno, da cinque anni, è costretta a ingaggiare con quell’uomo grande e rozzo che le fa da padre e che tratta i suoi fratelli come gli animali che pasce in montagna mentre di lei abusa regolarmente.

Arriva però il momento in cui non ne può più; capisce che deve rompere il silenzio e con esso la paura e la vergogna. Deve confidarsi con sua madre, che fino ad allora ha voluto proteggere da quell’atroce verità, nel timore di chissà quali conseguenze, mentre era lei che avrebbe avuto bisogno d’essere protetta!

"Papà mi fa fare cose brutte… mi fa fare le cose come i grandi fanno per fare i figli"…

Quale madre non entrerebbe nel panico davanti ad una tale confessione!

Invece, la reazione che Maria ottiene non è tra quelle che aveva messo in conto. Sua madre semplicemente non le crede. Forse pensa ad una figlia gelosa di quell’uomo che ha scelto come sostituto di suo padre, oppure ad una ripicca dettata dall’impulso contestatore tipico dell’adolescenza.

Alla ragazza non resta allora che fornirle le prove. Così, durante l’ennesima violenza subita dal patrigno, riesce a riprendere tutto col cellulare - compreso il lancio di pietre con cui l’uomo la insegue mentre lei poi va via - e invia il video a sua madre, che di fronte a tanta evidenza non può che scappare, portare lontano, al sicuro, tutti i suoi figli e denunciare l’uomo.

La notizia è di questi giorni; ma quanta attenzione le hanno dedicato i media è a quanti è arrivata? E tra coloro che l’hanno letta o sentita, su quanti è scivolata, senza alcuna riflessione, empatia o banale commento che non fosse “mica è la prima volta” oppure “certe cose succedono solo al Sud”?

L’interesse era rivolto altrove: ad un altro genitore – ben più in vista e conosciuto – che in quelle stesse ore “interrogava” suo figlio Leonardo Apache (e stavolta il nome è vero!), accusato di violenza sessuale da una sua coetanea che solo diverse settimane dopo l’accaduto ha deciso di sporgere denuncia.

In quel caso, però, quel padre non ha affatto messo in dubbio il racconto di suo figlio: vero è che non si trattava della vittima ma dell’accusato e, tuttavia, nemmeno ha l’ha considerata l’eventualità che potesse avergli mentito.

Più facile incolpare la ragazza, inattendibile perché ubriaca e drogata e probabilmente anche in mala fede, giacché non ha denunciato subito i fatti; tanto basterebbe, infatti – come due anni fa un altro padre altrettanto famoso aveva lasciato intendere pur di scagionare il proprio figlio dalla stessa accusa -, a trasformare in consenso un mancato dissenso. Capovolgendo in tal modo la prospettiva, è facile dunque che l’accusato si trasformi in vittima, strumentalizzato giacché figlio di chi è figlio: quale miglior cassa di risonanza mediatica per una vicenda che altrimenti sarebbe rimasta priva di risalto come quella di Maria!

Ma può questo essere un valido motivo per assumere la difesa straordinaria di un figlio senza neppure considerare l’eventualità che i fatti siano andati diversamente rispetto alla ricostruzione più conveniente?

Non è qui il caso di tornare ancora una volta (cfr. “Genitori e figli” in Fiscal Focus del 15 maggio 2021) sulla questione dei difetti e delle mancanze di modelli genitoriali sempre meno solidi e su quel malsano permissivismo che spesso ha come risvolto l’incapacità di riconoscere ed ammettere delle responsabilità, le proprie e quelle dei propri figli.

Ciò che tuttavia dal confronto tra le due vicende riportate balza evidente e crea spunto per riflettere è il contrasto tra la figura di una madre che al racconto drammatico di sua figlia (vittima, non colpevole!) non crede se non vede, e quella di un padre cui, viceversa, non necessitano prove per sostenere l’innocenza di suo figlio: gli è bastato ‘interrogarlo’, certo più come un insegnante chiamato ad esprimere un voto che non come un inquirente tenuto ad un giudizio.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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