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Genitori e figli

Autore: Ester Annetta
“Sono stata anch’io bambina, di mio padre innamorata…” mi risuonano nella mente questi versi - i primi di una bellissima canzone di qualche tempo fa - mentre, indotta da alcune recenti vicende, mi accingo a scrivere questa riflessione.

Parte da lontano, da quella fase di innamoramento per il proprio papà, appunto, che, per ogni donna, in misura più o meno marcata, è tra i ricordi meglio custoditi della propria infanzia.

È quel tempo fatto d’intesa, di complicità riposta nei “non diciamo niente a mamma” che assecondavano capricci; di favole inventate e ripetute all’infinito come patto per addormentarsi; di grandi mani che tenevano pance sospese a pelo d’acqua per insegnare a nuotare; di braccia che diventavano rifugio dopo una caduta dalla bici la prima volta senza rotelle. E, ancora, di quel sorriso divertito e compiaciuto in risposta alla richiesta “papà, è vero che quando sarò grande ci sposiamo?” e l’ingenua fiducia in promesse che solo molto più tardi altri uomini ed altre illusioni avrebbero minato.

Il pensiero successivo si addentra nel confronto tra padri d’altri tempi e modelli attuali, tra generazioni che sono passate dal rispetto indotto dal patriarcato al totale disprezzo della figura genitoriale o, all’opposto, da padri che sono stati spesso anche padroni (senza tuttavia mai smettere d’essere guide tanto autorevoli quanto indulgenti), a figure che, più frequentemente, non sono mai state reali educatori, sottratte a quel ruolo da altre priorità (di carriera o anche di nuove famiglie, e perciò caduti nella trappola d’un rovinoso permissivismo), o che hanno totalmente abiurato alla loro missione, perché più attente a non favorire condotte giudicabili col metro del pregiudizio altrui o persino più votate alla violenza che non al dialogo.

È questo che raccontano tante storie recenti, finendo per comporsi in un campionario piuttosto variegato e raccapricciante: c’è il modello “padre-giudicante”, che pur di assolvere il proprio figlio “diciannovenne deficiente” ed i suoi compagni dall’accusa di violenza sessuale, punta il dito contro la vittima, sentenziando che una denuncia tardiva basta a trasformare in consenso un mancato dissenso; gli fa eco il modello “padre-democratico”, che ardisce definire bravi ragazzi i quattro stupratori di sua figlia, colpevole – lei! - d’essersi ubriacata ad una festa in cui si era ritrovata ad essere l’unica invitata; ce n’è poi un altro, il “padre-inquisitore”, che non esita a mettere alla porta la figlia o il figlio perché hanno scelto d’amare un compagno del sesso sbagliato, ed un altro ancora – che è meglio non definire - (ed è un patrigno stavolta, sebbene ciò non costituisca un’attenuante) che costringe la figlia di 12 anni a prostituirsi con i camionisti in un autogrill in cambio di 5 euro e un pacchetto di sigarette, concedendosi qualche volta anche il gusto di riprendere col proprio telefonino le violenze subite dall’indifesa ragazzina.

Sul rovescio della medaglia (che, nella specie, è evidentemente una patacca e non un fregio) ci sono, invece, figlie che tacciono, assistendo impotenti al furto della propria innocenza da parte di chi, in un tempo diverso, è stato il loro eroe; che annegano ancora in una ingenuità tale da confondere certe “attenzioni” paterne con premure o, persino, privilegi; che non comprendono che non è più un gioco il patto di silenzio e segretezza richiesto da chi ha ormai smesso d’essere un complice ed un compagno di giochi.

E ci sono, infine, figli che, nell’impeto di un momento, uccidono i padri o che, con fredda lucidità, premeditano ed eseguono persino una strage familiare, per eliminare l’ostacolo che quei pedanti parenti rappresentano ai loro vizi o ai loro percorsi sbandati.

Il discorso naturalmente poi si allarga, per poter comprendere entrambe le figure genitoriali così come pure i figli di ambo i sessi. Risulta, allora, che, se è vero che non è mai stato semplice essere un genitore e, dunque, per un verso, è naturale sentirsi inadeguati al compito, per altro è inconcepibile arrivare a contraffarlo, svenderlo, insozzarlo, cedendo - secondo una precisa e parallela scala di gravità - all’incoerenza, alla violenza o alle aberrazioni.

Allo stesso modo, per ogni figlio arriva sempre l’età della ribellione; ma, anche qui, un conto sono le discussioni, i contrasti e le contestazioni, altro è esasperarli al punto da concepire spregevoli e assurde vendette.

Viene allora da domandarsi dove siano finiti il rispetto che un tempo i figli tributavano ai genitori e, per contro, quell’autorevolezza (spesso ammantata anche d’autorità, senza tuttavia per questo sconfinare nella prepotenza o nella violenza) che, se sulle prime generava disappunto, col tempo rivelava il suo valore di strumento di guida efficace in dotazione d'ogni genitore.

I tempi sono cambiati, è vero; ma qualcosa deve, tuttavia, aver funzionato male se si è finiti per diventare tutti – genitori e figli – sudditi delle condotte sociali e delle tendenze e col perdere di vista i propri naturali caratteri e le rispettive funzioni. I figli, allora, sempre più deviano e disconoscono il modello genitoriale; ma non manca evidentemente una corresponsabilità di padri e madri che, persa la consapevolezza del loro compito di educatori, regrediscono pericolosamente, a loro volta, allo stadio di educandi.

È una deriva da fermare, perché la novità dei tempi, il progresso e l’attualità non devono andare a discapito dei ruoli e della loro conservazione, poiché - per esigenze pedagogiche prima ancora che per tradizione - è necessario che restino aderenti a schemi di verificata efficacia, adeguati a formare generazioni forti e determinate ma, soprattutto, rispettose dei valori.

Vale per padri e madri di ieri e per i figli di oggi che saranno genitori di domani.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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