È la bizzarra storia di una rapina rocambolesca - eppure straordinaria - quella raccontata da Vicenzo Alfieri nella sua pellicola “Gli Uomini d’Oro”, inspirata ad una vicenda realmente accaduta.
La cronaca è questa: Torino, 25 giugno del 1996.
Giuliano Guerzoni, autista delle Poste con fama di playboy, ed il collega Enrico Ughini, grazie alla complicità di un terzo impiegato, Domenico Cante, mettono a segno un colpo meditato da tempo.
L’idea – semplice eppure geniale – è quella di sottrarre i sacchi di valuta raccolti durante il giro dei vari uffici postali che giornalmente Guerzoni effettua con il furgone portavalori e sostituirli con altri di uguale peso, pieni però di carta straccia. Dello scambio si occupa Ughini, nascosto all’interno del furgone, approfittando dell’intervallo di tempo intercorrente tra il ritiro dei sacchi – fatto materialmente da Cante – presso ciascun ufficio postale ed il tragitto occorrente all’arrivo a quello successivo.
L’intero tragitto e le varie soste sono seguiti da una scorta di polizia che, tuttavia, lascia solitamente libero Guerzoni di riportare il furgone al deposito una volta che, completato il giro, i sacchi raccolti vengono consegnati da Cante all’ufficio postale centrale di Porta Nuova per essere riposti in cassaforte.
In tal modo Guerzoni, con l’aiuto di Ughini, può, nel tragitto di ritorno, indisturbatamente fermarsi a nascondere la refurtiva nella sua auto prima di riconsegnare il furgone.
I sacchi sottratti contengono circa 5 miliardi di lire, di cui la metà in contanti.
“Credetemi, è un gioco da bambini” aveva detto Guerzoni ai suoi complici spiegando il piano, aggiungendo: “Il giorno stesso partiremo per il Costarica”.
Il clamoroso colpo di quella improvvisata banda viene scoperto la mattina successiva; quei ladri goffi ed incapaci hanno consegnato un sacco in più rispetto a quelli ritirati, poiché Ughini, nello scambiare la refurtiva, si è confuso ed ha rimesso fuori uno dei sacchi originali, perdendo così parte del denaro ma commettendo, altresì, un clamoroso passo falso.
Tuttavia Guerzoni e Ughini fanno in tempo a sparire insieme ai soldi, mentre Cante, presentatosi regolarmente al lavoro il giorno successivo al furto, viene interrogato; nega, però, ogni suo coinvolgimento e, in mancanza di prove, viene rilasciato.
Una decina di giorni dopo accade qualcosa di inaspettato: un contadino ritrova nei boschi della Val di Susa i corpi di due uomini, sepolti in due sacchi a pelo. Sono quelli dei due postini - nel frattempo già ribattezzati dalla stampa “gli uomini d’oro”, espressione con cui si vogliono indicare quei personaggi, protagonisti di un colpo molto grosso, che non lasciano vittime sulla loro strada – probabilmente assassinati nel corso di una lite per la divisione del bottino.
A quel punto Cante viene arrestato e, dopo numerosi interrogatori, fa il nome di un altro personaggio: Ivan Cella, gestore di una birreria di Susa e suo socio in una piccola impresa di impianti elettrici. Cella viene così interrogato a sua volta, ma si dice estraneo ai fatti e, non potendo essere trattenuto, viene rilasciato.
Il giorno successivo, con la sua compagna e probabilmente con il bottino, scappa all’estero. La sua è tuttavia una latitanza breve: a dicembre dello stesso anno viene rintracciato e catturato a Tirana grazie ad un’operazione di collaborazione tra la polizia italiana e quella albanese.
Nel processo davanti alla Corte d’Assise di Torino dichiara, riferendosi ai due postini: “Temevamo che potessero essere dannosi. La buca in cui li seppellimmo l’avevamo già scavata verso il 20 maggio”.
Cante e Cella vengono condannati, ma un dato di quella grottesca e bizzarra vicenda è destinato a rimanere oscuro: dei 5 miliardi rubati non viene mai ritrovata alcuna traccia.
Il film di Alfieri replica in maniera abbastanza fedele la trama di questa storia vera, soffermandosi tuttavia in maniera molto efficace sulla delineazione delle caratteristiche psicologiche e caratteriali dei personaggi, ai quali, peraltro, assegna anche il ruolo di “sceneggiatori”. La storia viene, difatti, divisa in tre episodi che, affidati, rispettivamente al Playboy, al Cacciatore e al Lupo – i tre personaggi principali del film – narrano la stessa vicenda dai tre differenti punti di vista dei detti protagonisti.
L’intreccio narrativo è molto ben costruito e il ripetersi di alcuni dettagli attraverso la visuale dei diversi soggetti è di grande effetto.
Molto efficaci anche le contestualizzazioni delle vicende personali dei singoli personaggi: dallo sfogo di Luigi il Playboy (Giampaolo Morelli), l’autista portavalori, che, a tre mesi dalla sua baby pensione, è stato buggerato dal provvedimento del Ministro Dini - "uno che non l'ha eletto nessuno" – che ha spostato dieci anni più avanti l'età pensionabile, ed ha perciò ideato il colpo, disposto a rischiare 20 anni di galera piuttosto che altri 20 anni di lavoro nelle poste; al ricorrente conflitto tra nord e sud, tra terroni e polentoni, reinterpretato anche attraverso la rivalità calcistica tra due dei personaggi (un napoletano e un torinese), tifosi, rispettivamente della Juve e del Torino; fino alla velata critica all’inefficienza di alcuni apparati istituzionali della nostra società che, paradossalmente, finiscono per agire da “complici” della vicenda (in specie, la telefonata fatta ad un ufficio pubblico che non risponde perché ha chiuso prima dell’orario a causa della partita, finisce per favorire l’azione dei rapinatori).
Sorprendenti le interpretazioni di Fabio De Luigi e di Edoardo Leo - solitamente impiegati per ruoli comici o ben più leggeri – che nel film danno corpo rispettivamente a due personaggi (il Cacciatore, l’impiegato che ritira i sacchi; e Il Lupo, ex pugile, socio del Cacciatore nella gestione di un pub e riscossore per conto di un ambiguo strozzino (Gianmarco Tognazzi) che cela i suoi loschi traffici dietro un’attività di alta sartoria) dalle forti connotazioni caratteriali:
Alvise (il Cacciatore), un cardiopatico che fa due o tre lavori per mantenere la propria famiglia allineata agli standard borghesi ed è costantemente accigliato, duro, rancoroso, pronto ad esplodere da un momento all’altro in preda alle sue frustrazioni; e Nicola (il Lupo), abile con i pugni ma con scarso intelletto, tanto da soccombere spesso ai raggiri, orditi anche dai suoi amici.
Su tutti, spiccano – benché apparentemente marginali - figure femminili forti e dominanti, che riescono a condizionare e quasi pilotare le azioni degli uomini, finendo per diventare la metafora delle debolezze che attentano alla virilità.
Il film funziona. La sua tessitura così articolata eppure così sapientemente intrecciata ha la capacità di mantenere sempre viva l’attenzione dello spettatore, sollecitandola a raccogliere e riunificare i tratti apparentemente discontinui di quella narrazione resa attraverso i punti di vista dei tre personaggi, per proiettarla verso la comune conclusione, in un’alternanza di tensione e distensione che può avere sia l’effetto di disorientare e lasciare perplessi che quello di farne apprezzare l’innovatività, ma che, in ogni caso, rende gradevole la visione.