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Hangar 12

Autore: Ester Annetta
Un boato, un’immensa colonna di fumo che si leva a fungo rievocando quello atomico di Hiroshima e, in pochi istanti, nella zona del porto di Beirut non resta nulla, spazzata via dall’esplosione e dal mare che ricopre la voragine che l’ha inghiottita.

La detonazione è talmente potente da causare un terremoto di magnitudo 3.5, percepito fino all’isola di Cipro, a circa 200 chilometri di distanza; l’onda d’urto cosi violenta da mandare in frantumi vetri di porte e finestre nel raggio di sette chilometri.

Di colpo è come se la città che ha già patito la devastazione di una sanguinosa guerra civile, protrattasi per quindici anni - tra il 1975 e 1990 -, fosse tornata indietro nel tempo, al terrore di allora, alla ferita non rimarginata d’una terra che pare abbia scritto nel suo destino di dover essere senza pace e vittima dell’orrore senza mai fine.

Cinque minuti soltanto sono bastati perché su Beirut scendesse il buio: non più soltanto quello di una gravissima crisi economica che, negli ultimi tempi, aveva costretto persino a tagliare l’energia elettrica riducendola ad una erogazione di poche ore a settimana, ma quello ancora più nero della paura e della morte.

135 morti, oltre 5000 feriti, 300mila sfollati: è un tragico bollettino di quella che, pur non essendo una guerra, ne ha le stesse risonanze di tragedia e di dolore.

La devastazione e la morte sono pene cui non si diventa mai avvezzi, nemmeno laddove vi si sia convissuto a lungo.

C’era già stata la resa economica, il default proclamato lo scorso marzo dal primo ministro Hassan Diab quando si era preso atto dell’impossibilità di ripagare gli 1,2 miliardi di dollari di obbligazioni emesse in valuta estera, con conseguente crescita del debito pubblico; c’era stato, a seguire, il crollo della sterlina libanese che aveva comportato una drammatica diminuzione del potere d’acquisto da parte della popolazione; c’era stato il tentativo del governo di rimpinguare le casse dello stato mediante una nuova tassazione su tabacco, carburante e servizi di messaggeria telefonica; c’era la guerra nella confinante Siria, i profughi e la loro miseria aggiunta a quella nostrana; poi c’era stato il lockdown, che aveva comportato la chiusura di molti negozi, la perdita di posti di lavoro in un paese con un tasso di disoccupazione già al 25% e lo stop forzato al turismo, uno dei pilastri dell’economia del Paese. Ma non bastava, evidentemente. Serviva ancora un atto, un caso, una disgrazia che, esplodendo – letteralmente – assurgesse a simbolo del fallimento di un’intera classe politica che - connivente con attori esterni che sul territorio libanese hanno condotto i loro giochi di potere come pedine su una scacchiera - pare abbia finito per decretare l’autodistruzione del proprio paese.

L’hangar 12 è difatti il simbolo della negligenza e dell’interesse alieno ai bisogni nazionali.
Nel suo ventre riposavano 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, sequestrate ad una nave - la Rhosus - battente bandiera moldava (ma di proprietà di un armatore russo di stanza a Cipro) che, salpata dalla Georgia e diretta nel Mozambico, era stata costretta a una sosta a Beirut a causa di problemi tecnici. Era il settembre del 2013. Da allora, sebbene ne fosse nota la pericolosità e nonostante i reiterati inviti dei funzionari delle dogane agli uffici amministrativi preposti per ottenerne la rimozione, il carico sequestrato è rimasto stoccato nell’hangar, “in attesa di essere messo all'asta e/o smaltito correttamente".

Un vicino deposito di fuochi d’artifici e una scintilla prodotta dal saldatore con cui si tentava di rattoppare le falle dell’hangar ormai vetusto sono stati gli ingredienti fatali di una tragedia annunciata, che tale si è confermata, nonostante l’iniziale fuorviante tentativo di indirizzare verso il rituale copione dell’attentato le responsabilità della sciagura.

Ora a Beirut è tutto distrutto, come durante la guerra di tanti anni fa. I suoi tre ospedali sono crollati e i feriti si curano nei parcheggi. Non resta nulla di quella ritrovata bellezza che una terra a lungo martoriata aveva infine riscattato, pur senza aver cancellato la memoria del proprio passato, affinché restasse a monito di una follia che non avrebbe dovuto ripetersi mai più.

Tutto è polvere ora. Densa e pesante, si è posata come un sudario sulle macerie, sui corpi, sui volti, sul poco che è rimasto in piedi e su ciò che è andato distrutto per sempre, comprese le promesse, le speranze ed il futuro di un popolo che un crudele destino ha gettato ancora una volta nell’inferno.

Ciò che allora dobbiamo imparare da questa tragedia è che ovunque c’è un hangar 12: un covo d’indifferenza, d’ingiustizia, d’incapacità e d’inerzia; un non luogo presente in ogni paese in cui tutti quei difetti accomunati da uno stesso prefisso regnano sovrani; una polveriera che può esplodere in qualunque, imprecisato momento ove non vi si ponga freno, travolgendo indistintamente colpevoli ed innocenti, ma soprattutto innocenti.

Ancora più forte e disperato sembra perciò ora levarsi, per il Libano - agnello sacrificale di turno - il canto del profeta che vuole scuotere gli animi e le coscienze, e che deve valere da monito ad ogni stato, ad ogni terra: “Il vostro Libano è una partita a scacchi tra un vescovo e un generale; il mio Libano è un tempio in cui la mia anima trova riparo quando si stanca di questa civiltà che corre su stridule ruote.
Il vostro Libano si divide in due uomini: l’uno paga le tasse, l’altro le riscuote; il mio Libano è qualcuno che reclina il capo sul braccio all’ombra dei Cedri Sacri, dimentico di ogni cosa eccetto Dio e la luce del Sole” (Khalil Gibran).
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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