“Non posso respirare…”
Migliaia di persone, negli ultimi mesi, avranno pronunciato questa frase, distesi su barelle o in letti d’ospedale, tentando di lottare contro un nemico invisibile che imbrigliava i loro polmoni.
Sono le stesse parole che un uomo ha invece tentato di urlarle ad un nemico che - se solo non fosse stato steso a faccia in giù sull’asfalto – avrebbe potuto vedere in volto, mentre gli premeva un ginocchio sulla gola.
Si chiamava George Floyd, ed era nero.
Un giorno di maggio se ne stava seduto nella sua auto “apparentemente sotto l’effetto di sostanze stupefacenti”, come hanno riportato i giornali; pare che poco prima avesse tentato di acquistare qualcosa in un supermarket di Minneapolis usando una banconota falsa da 20 dollari. Allertati, gli agenti di polizia intervengono sul posto intimandogli di scendere dall’auto. Le telecamere di sorveglianza di un ristorante lì vicino mostrano che George non oppone alcuna resistenza e, anzi, cade ben due volte mentre viene scortato dagli agenti.
Poi si ritrova a terra, immobilizzato, ammanettato e a faccia in giù. Derek Chauvin, uno degli agenti, gli preme un ginocchio sulla gola. Tiene una mano in tasca, l’aria indifferente, quasi compiaciuta, anzi, come se stesse sperimentando in quel momento lo straordinario potere di poter decidere un destino di vita o di morte.
George lo implora di lasciarlo respirare; piange, si lamenta.
Ma Derek è impassibile; continua a schiacciare il suo ginocchio sulla gola di George sentendo il suo battito affievolirsi sempre di più, guardandolo quasi con un sogghigno, finché non resta immobile. Nemmeno allora allenta la morsa: resta in quella posizione per 8 minuti e 46 secondi, ben oltre i sei minuti che sono bastati a George per morire, nonostante la folla radunatasi intorno chieda a gran voce – e tuttavia senza il coraggio di intervenire – di lasciarlo andare.
Il video girato da uno dei presenti fa ben presto il giro mondo, immortalando quella drammatica sequenza di immagini che, senza tema di contraddizione, a tutti appare immediatamente come un’autentica e spietata esecuzione capitale, attuata con raccapricciante freddezza e disinvoltura da un ufficiale di polizia. Bianco.
I colori non sono un dettaglio. Non sono le tinte a contrasto con cui vogliono rappresentarsi le tavole illustrate di questa triste storia.
Sono invece un elemento importante, la condizione – anzi – che rivela l’assurdità e l’asprezza di questa vicenda e, più ancora, dimostra come certi pregiudizi lungi dall’esser stati sconfitti sono tuttora vivi ed attuali.
Siamo tutti colpevoli, siamo tutti ipocriti se continuiamo a negarlo: non sono bastati decenni di lotte, di sacrifici e di vittime a riscattare una razza, a riconoscerle la stessa dignità che spetta a tutti gli esseri umani. Ci sono luoghi e ci sono persone dove e secondo cui l’essere nero permane ancora una condizione di inferiorità, la colpa sufficiente a legittimare l’esecuzione di una sentenza di morte, senza alcun tribunale e senza alcun giudizio.
George ne è l’esempio.
Era un omone pacifico, un “gigante buono”, come lo definivano i suoi compagni di basket.
Probabilmente avrà avuto anche le sue colpe, più o meno come tutti o forse di più. Ma che fosse o meno sotto l’effetto di stupefacenti, che avesse o meno tentato di piazzare una banconota falsa, che avesse o no opposto resistenza agli agenti di polizia, non meritava certo di morire ammazzato per strada, immobilizzato come una bestia, reclamando la libertà di un respiro, implorando pietà, rantolando tra le lacrime e la paura quando ormai era chiaro che la morte - che non era affatto senza volto e avvolta in un manto nero ma indossava una divisa da poliziotto e quasi fischiettava tenendo una mano in tasca - se lo stava portando via.
Derek, dal canto suo, non era invece nuovo ad esecuzioni di questo tipo: già un paio di volte, nel corso di altre azioni di polizia, aveva ucciso altrettanti uomini e anche allora – guarda caso - si era trattato di afroamericani.
Ora è in carcere, eppure la sensazione è che ci sia finito più per placare gli animi dei rivoltosi - che, chiedendo giustizia per George, stanno mettendo a ferro e fuoco Minneapolis ed altre città - che non perché davvero lo si creda colpevole d’omicidio.
La prima autopsia eseguita sul corpo di George ha intanto escluso che sia morto per soffocamento; quella successiva, “indipendente”, voluta dalla famiglia, ha reso invece il referto opposto e, addirittura, ha rilevato che l’omone fosse un infettato Covid asintomatico.
Qualunque sia la verità (ma c’è poco da scommettere), non basterà di certo a scagionare Derek: suo era lo sguardo impassibile che osservava gli sforzi di un uomo che si batteva per non morire, suo era il ginocchio che attendeva che il pulsare dei battiti nella gola su cui spingeva si arrestasse, sua era quella mano in tasca che esprimeva tutta l’indifferenza con cui stava eseguendo la condanna di una persona che in quel momento era il simbolo di una razza tuttora invisa e disprezzata e della perdita d’ogni sentimento d’umanità.