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I colori del dolore

Autore: Ester Annetta
È un sabato di dicembre. Le strade e le vetrine sono scintillanti di luci e cariche di decorazioni e le loro vista rallegra sguardi e pensieri.
Lo spirito natalizio pervade già gli animi, rendendo tutti più benevoli, tolleranti, disponibili, come se un sottile incantesimo fosse sceso a velare inquietudini e tensioni ed a spargere un balsamo di contrasto alla durezza dei cuori.

Nelle più belle fiabe di Natale è così che viene perlopiù descritto il clima natalizio: non solo un tripudio di lampadine e colori ma, soprattutto, un intervallo di serenità e di dolcezza, in cui si possono dissolvere tutte le brutture temporanee o di lunga durata e riacquistare sentimenti di bontà e di solidarietà.
Ma la realtà rivela sempre qualche contraddizione, di quelle che smentiscono le regole ed i canoni e sbattono in faccia verità meno rispettabili, di quelle che riconducono gli esseri umani alla loro primordiale bestialità.

Al Pronto Soccorso dell’ospedale di Sondrio arriva una giovane mamma nigeriana di 20 anni. Porta in braccio la sua bimba di 5 mesi che non respira più: è in arresto cardiocircolatorio, uno di quei casi di morte bianca che purtroppo sono ancora frequenti tra i neonati.
È un codice rosso; i medici e gli infermieri intervengono dunque tempestivamente tentando tutte le manovre possibili per salvare la piccola, che però non ce la fa.
Il panico iniziale della madre si tramuta allora in un lungo, straziante urlo di dolore.
Del resto, quale madre non reagirebbe così? Sopravvivere al proprio figlio, anche se non ha ancora vissuto abbastanza, è un “privilegio” inaccettabile, una beffa crudele del destino; anzi, forse è proprio perché, una volta nato, un figlio è come se ci fosse da sempre, tanto da non ricordare più la propria vita prima di lui, che perderlo pochi mesi dopo avergli dato la vita è un dramma inconsolabile.

Ma le urla di quella madre disturbano, infastidiscono la pigra attesa di altre persone che aspettano d’essere visitate, contrariate probabilmente anche dal fatto che quella bimba scura e sua madre (altrettanto scura) siano passate davanti a tutti!
Qualcuno l’avrà anche pensato, si: forse lo stesso individuo che ha definito lo strazio di quella madre – anzi, di quella scimmia – un rito tribale, come se il dolore avesse un’etnia ed un colore; o forse quello che ha reinterpretato il suo lamento come un rito satanico, perché chi è nero di pelle si è sicuramente bruciato all’Inferno; o, ancora, quello che causticamente ha commentato che per gli africani - ma voleva dire: per quelle bestie, per quei selvaggi, per quei primitivi - perdere un figlio non è poi così importante, visto che si riproducono così frequentemente da sfornarne uno all’anno.

Quanta ignoranza, quanta meschinità, quanta grettezza!
La pietà umana ha imparato a manifestarsi entro argini contenuti, a non scostarsi da latitudini anche geografiche ben precise, a non includere la diversità. È diventata un sentimento “di lusso” (come la bontà, del resto), non sprecabile, non impiegabile se non in circostanze che ne siano davvero degne.
Il peggio è che pure il metro con cui misurare quando si sia di fronte a qualcosa di degno, quando sia lecito mostrare il lato puro dell’anima è ormai falsato, inquinato da pregiudizi, superbia, ipocrisie che ne alterano la precisione.
Ed ecco allora che si finisce per attribuire una bandiera ed una razza persino ai sentimenti, anestetizzando la coscienza e l’empatia, dimenticando la comune discendenza ed appartenenza allo stesso genere – quello umano - ed attribuendo anche al dolore un valore diverso, come se anche il suo peso fosse una questione di geografie.

Scrive Marco Alberti nel suo editoriale su Sondrio Today: “Hanno sminuito la sofferenza di una madre ingigantendo la loro ignoranza. Si sono mostrati per quello che siamo diventati. Chissà se le urla di una giovane donna valtellinese avrebbero dato lo stesso fastidio. Chissà se a pochi giorni da Natale il fastidio avrebbe lasciato spazio alla comprensione e all’empatia. Chissà se, almeno questa volta, è concesso usare la parola razzismo. Chissà...”

Guardiamoci in faccia e vergogniamoci per l’ignobile deriva dei nostri sentimenti.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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