20 giugno 2020
20 giugno 2020

I maturi della pandemia

Autore: Ester Annetta
17 giugno 2020.

È plumbeo il cielo di questa mattina, come se rispecchiasse lo stato d’animo dei tanti studenti che forse solo oggi, davvero, avvertono per la prima volta la tensione dell’esame, restituendo senso e credibilità all’attesa di una prova che il paradosso della pandemia ha insolitamente alleggerito.

Per loro l’ultima campanella di fine lezioni è suonata il 6 marzo, più di tre mesi fa. Allora non lo sapevano ancora che il lunedì successivo non sarebbero più tornati in classe, seduti ai loro banchi, quelli su cui per cinque anni avevano disegnato simboli ed improbabili ritratti, scritto formule o pensieri, nascosto cellulari dietro barricate di zaini o libri, copiato e persino dormito.

Da quel giorno per loro è iniziata l’incredibile avventura della “distanza” che, coniugata con la “didattica”, si è trasformata nella formula che ha reso accettabile e necessaria una modalità di comunicazione che, nelle relazioni umane, ogni genitore, fino a quel momento, aveva sempre tentato di scoraggiare: tastiere, smartphone, tablet e videochat sono diventate la quotidianità, la maniera sintetica, artificiosa, di fare classe e mantenere l’unione, con i vantaggi di un’”assenza” che non andava giustificata e che rendeva facilissima la possibilità di barare su compiti e verifiche, ma al prezzo di una “mancanza” che non consentiva sguardi d’intesa, suggerimenti a mezza bocca, foglietti trafugati né necessitava di mal di pancia e nonne moribonde per sfuggire alle interrogazioni.

È stato un tempo faticoso, che dopo l’iniziale ed apparente entusiasmo per annunciate promozioni garantite, tempi di lavoro e di consegne elastici e dilatati, voti “non-voti”, ha chiesto il conto, restituendo a migliaia di adolescenti un profondo senso di disagio, di disimpegno, di solitudine.

Ieri sera, per la prima volta dopo tre mesi, tutti quei ragazzi – i nostri figli – rispondendo ad un comune, muto richiamo, hanno perciò voluto ritrovarsi davanti ai cancelli delle loro scuole, a compiere il rito iniziatico della “notte prima degli esami” in cui, tra canti, spintoni, birre e sigarette, si sono finalmente ritrovati e riabbracciati, esibendo ciuffi ossigenati, barbe incolte, patenti nuove di zecca e smalti colorati con cui, dopo mesi di isolamento, hanno voluto simbolicamente rimarcare - in contrapposto a quella mascherina che tenderebbe ad omologarli - la loro identità, la loro singolarità.

Da oggi, cinque alla volta, ogni giorno fino alla fine delle sezioni e degli appelli, questi ragazzi riceveranno l’etichetta di “maturi”.

Chi, come me, li precede di qualche generazione, tanto da poter azzardare un paragone esordendo con un nostalgico “ai miei tempi”, sa che la “maturità” aveva un significato importante, allora: era per tanti un traguardo finito, oltre il quale spesso non c’era altro impegno di studio ma la conquista di uno “status” sufficiente a rendersi autonomi e adeguati a compiere una serie di scelte, compresa persino quella di metter su famiglia.

La maturità d’oggi, invece, lascia ancora acerbi; non consente di varcare quella conradiana linea d’ombra in cui si resta ancora a lungo allo stato ibrido tra adolescenti e uomini, immersi nel liquido amniotico degli agi e dei privilegi di una nuova cultura e d’una società del benessere dove la richiesta di responsabilità e d’autonomia tende ad avere scadenze meno imminenti.

E mai come quest’anno anche quella semplice etichetta di maturità avrà meno valore di sempre: questa del 2020 sarà ricordata come la maturità del Covid, quella concessa e non guadagnata; quella del sessanta politico dato anche a chi non ha oscurato solo telecamera e microfono durante la DAD ma anche la mente; sarà quella che avrà lasciato un’intera generazione con voragini di conoscenza mostruose, perché il tempo e le modalità non saranno state sufficienti a colmarle; sarà quella che avrà lasciato digiuni della bellezza della nostra storia, fatta di Resistenza e partigiani, e del pensiero di grandi uomini, filosofi e poeti; sarà quella cui sarà mancata la tensione della prova scritta, le scommesse sulle tracce, le notti in bianco trascorse sui libri a ripassare; sarà quella che sarà ricordata più per il rito di sanificazione, la mascherina, l’assenza di madri che avranno atteso i loro figli nei corridoi, che non per i contenuti di un bizzarro elaborato (che fino alla fine non è stato chiaro come andasse impostato) e di un colloquio già simulato e dall’esito pressoché scontato.

Un’altra sarà, però, la maturità che avranno dimostrato: quella di aver resistito al confinamento nelle loro camerette, circondati dalle performance di rapper ed influencer cui avranno finalmente riconosciuto il giusto valore di passatempo e non di modelli di riferimento;
quella di aver sofferto la lontananza da un luogo – la scuola – che mai avrebbero immaginato di poter rimpiangere prima ancora di aver terminato gli studi;
quella di aver compreso a causa del distacco dai compagni e dagli amici quanto profonde ed importanti siano le relazioni umane e quanto vuote quelle virtuali;
quella d’essersi voluti ritrovare, la notte prima degli esami, a dire addio al tempo spensierato della loro età fiorita, che precorre alla festa di lor vita.

A tutti loro, a tutti i nostri ragazzi, l’augurio che a diplomarli sia, più che l’esame, la maturità delle loro consapevolezze.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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