26 settembre 2020

Il coraggio dell’onestà

Autore: Ester Annetta
Avrebbe compiuto 61 anni proprio una settimana fa; forse sarebbe stato stempiato o addirittura calvo, il viso pieno di rughe scavate da notti insonni, e sicuramente già da diverso tempo sarebbe stato giornalista professionista.

E invece Giancarlo Siani avrà sempre 26 anni, i capelli neri col lungo ciuffo sulla fronte, il viso liscio e fresco dietro i suoi grandi occhiali tondi, il sorriso largo e scorrazzerà su quell’amata Méhari d’un improbabile colore.

E, nonostante a 35 anni dalla sua morte, l’Ordine dei Giornalisti di Napoli l’abbia onorato consegnando alla sua famiglia il tesserino di giornalista professionista, resterà sempre “l’abusivo”, il corrispondente normato dall’art. 12 del CCNL di categoria, ossia quel giornalista che, pur non essendo specializzato su una determinata tematica o argomento, è incaricato di fornire informazioni di qualsiasi tipo, riguardanti una data zona geografica che gli viene assegnata, in cambio di uno stipendio al limite del ridicolo.

Il 23 settembre del 1985 Giancarlo, il corrispondente da Torre Annunziata per Il Mattino di Napoli, ha consegnato alla memoria questa immagine di sé, freddato, a soli 26 anni, con dieci colpi di Beretta 7.65 in testa, sparati da due sicari della camorra mentre stava parcheggiando la Méhari sotto casa, nel quartiere dell’Arenella a Napoli.

Era stato quando, il 10 giugno di quello stesso anno, sulle colonne de Il Mattino aveva firmato un articolo che denunciava l'attività di alcune cosche criminali e la loro espansione economica, che aveva contemporaneamente firmato la propria condanna a morte.

In quell’articolo Giancarlo, sulla base di rivelazioni ottenute da un suo amico carabiniere, aveva accusato il clan Nuvoletta, alleato dei Corleonesi di Totò Riina, di aver stretto un patto di non belligeranza con il clan Bardellino, esponente della "Nuova Famiglia", il cui costo sarebbe stato la consegna alla polizia del boss Valentino Gionta.

I Nuvoletta, per vendicarsi d’esser stati fatti passare per “infami”, avevano perciò ordinato il suo assassinio.

Già da tempo, peraltro, il giornalista era finito nel mirino della camorra a causa delle sue inchieste, in particolare quella condotta sugli appalti pubblici per la ricostruzione delle aree colpite dal terremoto dell'Irpinia del 1980, con cui aveva denunciato infiltrazioni camorristiche nella vita politica.

Con uno stile schietto e semplice, ma soprattutto con coraggio, Giancarlo scriveva delle azioni dei clan camorristi, ne svelava i retroscena, raccontava le trame dei loro rapporti, animato dal sacro fuoco della libertà d’informazione e della ricerca della verità.

È morto per questo, anche se in tanti l’hanno dimenticato.

C’è un bellissimo libro di Lorenzo Marone - “Un ragazzo normale”- che dipinge in maniera gentile e delicata la figura di questo giovane giornalista, attraverso un lungo flashback, nel ricordo di un uomo che, tornato nei luoghi della sua infanzia, si rivede ragazzino, affascinato da quello che lui riteneva essere un supereroe. Mimì, il protagonista, racconta: “A dodici anni sono diventato amico di un supereroe. Aveva venticinque anni, abitava nel mio condominio a Napoli, che per certi versi è anche più pericolosa di Gotham City, si chiamava Giancarlo e, nonostante le mie insistenze, diceva di non essere per niente un supereroe.”

Sottesa a quella dei protagonisti, la figura di Giancarlo è un simbolo, un punto di riferimento che consentirà a Mimì di comprendere, crescendo, i valori della lealtà, dell'onestà e d’ogni altra passione e sentimento che rendono la vita degna di essere vissuta. Proprio com’è stato per lui.

In un dialogo col ragazzino, l’autore fa dire al giovane giornalista una frase bellissima quando vuol ribadire di non essere un supereroe: “Invece, Mimì, è sempre importante ricordarsi che siamo umani e non disponiamo di alcun potere, che non siamo infallibili, sbagliamo e spesso paghiamo caro per i nostri sbagli. Sentirsi invincibili non è una buona cosa, perché ti porta a commettere degli errori, a sottovalutare i segnali, a non accorgerti della precarietà delle cose. Ciò che ci rende umani, e per questo speciali, caro Mimì, sono proprio le nostre debolezze, i difetti, se vuoi chiamarli così.”

Mi piace credere che, davvero, Giancarlo pensasse così, che fosse consapevole dei rischi che correva e che il suo impegno a favore della verità fosse dettato soltanto dalla passione, dall’onestà e da un profondo senso di giustizia, senza che affatto per ciò si ritenesse un supereroe e, anzi, nemmeno un eroe.
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