20 febbraio 2021

Il destino di un eroe

Autore: Ester Annetta
La nostra Storia contemporanea conta molti uomini che per obbedire a degli ordini hanno ucciso altri uomini: sono stati invero sicari spietati, senza scrupoli, che, solo al momento di rendere conto alla giustizia terrena per le atrocità commesse, hanno fatto leva sul loro ruolo di esecutori, nel tentativo d’ottenere attenuanti o guadagnare giudizi d’incolpevolezza.

È altrettanto piena, però, anche di uomini che, sempre obbedendo ad ordini superiori, non si sono fatti scrupolo di mettere a repentaglio la propria vita per poterne salvare altre.

Di molti di loro, per una strana ironia della sorte, spesso si sa poco o niente; di alcuni si ignorano perfino le gesta, confuse nell’insieme di un’azione più grande alla quale è nella sua globalità che viene riconosciuto valore, senza dunque specifiche di nomi e titoli.

Val forse allora la pena, di tanto in tanto, di ricordarne qualcuno di quei nomi, scegliendolo tra quelli – a volte impronunciabili, che la memoria fatica a trattenere - a noi lontani per geografie ed epoche ma non per questo meno eroici.

Serve qui fare un balzo indietro nel tempo di 35 anni.

È la notte tra il 25 e il 26 aprile 1986; nella centrale nucleare V.I. Lenin, a 18 chilometri dalla città di Chernobyl e a 3 da quella di Pripyat, nell’area settentrionale dell’Ucraina - che è ancora parte dell’URSS - sono in corso dei test di sicurezza su uno dei quattro reattori che da soli producono il 10% dell’energia elettrica dello Stato. È il reattore numero 4, su cui si stanno collaudando le operazioni di raffreddamento da adottarsi in caso di emergenza nucleare; per questo motivo alcuni dispositivi di sicurezza sono stati disabilitati.

Qualcosa però va storto: un errore umano, forse unito ad alcune falle tecniche e strutturali; non si saprà mai; fatto sta che all’1.23 il reattore esplode, con una violenza tale da far saltare il coperchio di oltre mille tonnellate che chiude ermeticamente il nocciolo.

Divampa un enorme incendio che comincia a disperdere nell’aria materiale radioattivo: è uno dei disastri ambientali più catastrofici dell’intera storia dell’umanità, classificato, secondo la scala internazionale degli eventi nucleari e radiologici dell’Aiea (Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica), di livello 7: il massimo, lo stesso che qualche anno più tardi, nel 2011, sarà attribuito all'incidente della centrale di Fukushima, in Giappone.

La Russia di Gorbachev inizialmente tenta di minimizzare l’incidente e temporeggia nel prendere misure di sicurezza, nel timore che l’episodio possa sminuire agli occhi del mondo il proprio prestigio scientifico.

Ma la nube radioattiva generata dall’esplosione viaggia veloce, così la decisione di diffondere la notizia del disastro e di evacuare la popolazione delle città più vicine alla Centrale non può più essere taciuta: circa 300mila persone devono essere allontanate, 47mila sono solo gli abitanti di Pripyat, che resta (ed è tuttora) una città fantasma.

Nei giorni successivi la nube tossica si sposta verso la Bielorussia e i Paesi Baltici; poi su Svezia, Finlandia, Polonia, Germania settentrionale, Danimarca, Paesi Bassi, Mare del Nord e Regno Unito. Ai primi di maggio arriva in Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia, Austria, Italia settentrionale, Svizzera, Francia sud-orientale, Germania meridionale e poi ancora Italia centrale. Poi prosegue ancora, verso Russia meridionale, Romania, Moldavia, Balcani, Grecia e Turchia.

È solo il 10 maggio che l’emissione di vapore radioattivo si interrompe; resta tuttavia il pericolo della contaminazione del suolo in caso di pioggia nelle aree che sono state attraversate dalla nube.

Il numero reale dei morti di quel disastro non è stato mai reso ufficialmente noto, ma si stima che siano stati diverse centinaia di migliaia, tra quelli che morirono subito e quelli che furono portati via da leucemie e tumori vari (soprattutto alla tiroide) manifestatisi negli anni successivi al disastro. Numerosissimi anche i casi di bambini nati con gravi malformazioni.

Oggi il reattore numero 4 è sepolto sotto un’imponente struttura in cemento e acciaio, costruita per limitare la contaminazione radioattiva dell’ambiente; gli altri tre son stati progressivamente spenti: il numero 2, nel 1991; in numero 1, nel 1996 e infine, il numero 3 il 15 dicembre 2000, con la definitiva dismissione della Centrale.

È quello che avvenne appena dopo l’esplosione del reattore numero 4, quella notte di 35 anni fa, che vede protagonista il personaggio di questo ricordo.

Si chiamava Nikolai Antoshkin ed era il generale russo, pilota di elicotteri, che guidò la missione di spegnimento del reattore.

Lui per primo, in testa alla sua flotta di 100 elicotteri, sorvolò centinaia di volte il luogo del disastro: la sua missione era quella di lanciare sul nucleo scoperto del reattore, per arginare il flusso delle radiazioni, 10.000 paracadute caricati con sabbia, argilla, boro e piombo.

Il compito non era affatto semplice: l’apertura del bersaglio era di soli 19 metri di diametro; ogni pilota doveva librarsi a 200 metri sopra il nucleo, nel fumo denso, mentre un altro uomo tenuto da un'imbracatura doveva sporgersi per far cadere il paracadute. La temperatura dell'aria arrivava fino a 200 ° C, arroventando le fusoliere degli elicotteri.

Nessuno aveva protezioni adeguate, eccetto una maschera, e rimase esposto per ore a circa 3000 roentgen (l’unità di misura delle radiazioni): la metà bastava ad uccidere un uomo.

E, difatti, 28 piloti morirono subito; altri 14 in seguito, a causa di tumori persistenti. Lui stesso, Antoshkin, trascorse i due anni successivi in ospedale. Ma, allora, non si diede tegua: finita la missione aerea, era infatti sceso a terra, e aveva continuato a spalare sabbia con la vanga.

Sapeva, come tutti gli altri “liquidatori” (così vennero chiamate le circa 600mila persone che furono impiegate nelle ore e nei giorni immediatamente successivi al disastro per la rimozione dei detriti, la decontaminazione del sito e delle strade intorno e la costruzione del bozzolo di cemento armato che sigillò il nocciolo radioattivo), che l’esposizione alle radiazioni sarebbe stata rischiosissima per la propria salute, e, tuttavia, neppure fu sfiorato dall’idea di sottrarsi all’ordine ricevuto.

Aveva volato in Afghanistan per molte missioni; il suo elicottero era stato anche colpito, ma era riuscito ad atterrare incolume e subito era risalito. La morte, insomma, l’aveva vista in faccia da vicino; ma quella volta era diverso: le sarebbe rimasta accanto, come una non-presenza, per tutta la vita.

"Chernobyl non ti lascerà mai andare": così gli aveva detto il suo medico quando gli effetti della contaminazione s’erano palesati.

La parte superiore del suo corpo rimase segnata da lunghe cicatrici, nei punti in cui era stato necessario tagliarlo e ricucirlo per portar via le parti colpite dalla malattia da radiazioni; il suo sangue coagulava a fatica e aveva insistenti dolori che curava ingoiando otto pillole per tre volte al giorno.

Ma non si pentì mai.

Il suo solo “rammarico” fu solo quello d’essere ricordato come Eroe dell'Unione Sovietica, non per il suo lungo servizio come comandante di volo o per qualche azione sul confine sovietico-cinese (dove pure era stato impegnato) o in Afghanistan, ma per aver reso un "servizio disinteressato alla Patria" contro nessun nemico, tranne le travi incandescenti che aveva visto dall’alto.

Nikolai Antoshkin è morto poche settimane fa, all’età di 78 anni: non di tumore (che continuava a combattere) ma di Covid-19, un altro nemico invisibile evidentemente più potente di quello che, in qualche misura, era riuscito a sconfiggere.
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