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Il dio caduto

Autore: Ester Annetta
Ei fu.

con due sole sillabe poste all’inizio di una splendida ode, due secoli fa l’ingegno letterario di Manzoni offriva uno splendido omaggio ad un incontroverso condottiero, consegnandone il ricordo alla memoria futura. Non un nome - non ce n’era bisogno - ma soltanto un pronome solenne; ed un verbo, declinato al passato remoto, a significare l’appartenenza dei suoi gesti ad un già stato, ad un’epopea ormai conclusa, a monito della caducità dell’esistenza e dell’effimeratezza della gloria terrena.

Torna ora alla memoria quell’incipit, traslato ai giorni nostri, adattato all’appena inaugurato memoriale d’un uomo che non guidò eserciti e Stati ma che, nel suo contesto, è tuttavia già passato alla storia come un condottiero, un leader, un glorioso vincitore, quasi circondato da un’aura di divinità.

Diego Armando Maradona se n’è andato. Quel dio dai piedi alati e miracolosi che ha fatto innamorare tifosi a frotte e che era conosciuto anche di chi per il calcio non aveva alcuna passione né interesse, non è riuscito stavolta a dribblare l’attacco a sorpresa d’un’avversaria che già in passato l’aveva spesso insidiato. La morte se l’è portato via, approfittando di uno di quei tanti momenti di debolezza che, nel procedere d’una vita costellata di successi e allori, frequentemente avevano tolto il rivestimento esterno alla divinità per rivelarne la natura tremendamente umana.

Dalle strade polverose di Villa Fiorito, nella provincia di Buenos Aires, El Pelusa (com’era stato soprannominato per via della sua mole esagerata di capelli) era andato lontano con i suoi scarpini da calcio, da quando, a soli dieci anni, si era fatto notare da uno scopritore di talenti tra le “Cebollitas” (i ragazzi delle giovanili dell’Argentinos Junior) e aveva convinto la sua povera famiglia – che a stento aveva di che sfamare i suoi dieci componenti – che le sue abilità potevano essere il lasciapassare per un futuro migliore.

Dieci – Diez- un numero ricorrente, quello che sarebbe stato impresso sulla sua maglia di fuoriclasse e che il Napoli non avrebbe più concesso a nessun altro giocatore dopo di lui.

A lui, tra gli anni ’80 e ’90 la città partenopea aveva riconosciuto il miracolo d’aver potuto finalmente scavalcare la barriera del pregiudizio che, storicamente, divideva il Nord dal Sud anche calcisticamente, aggiudicandosi diverse medaglie al valore: due scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana e una Coppa Uefa.

Dopo Ciro e Salvatore, Diego divenne in quegli anni il nome più diffuso tra i nuovi nati, un ex voto tributato ad un santo cui era stato persino dedicato un altarino in via San Biagio dei Librai, meta di pellegrinaggi e preghiere per l’intercessione alla vittoria per ogni sportivo, alla vigilia d’una gara.

Ma la sua fama era andata ben oltre: fu lui il 22 giugno 1986, nei quarti di finale dei campionati del mondo in Messico, a decretare la vittoria della Argentina contro l’Inghilterra grazie al "gol del secolo", a tre minuti da quell’altro segnato con la “mano de Dios”.
Una vittoria, anche quella, che non era stata solo calcistica ma che aveva assunto i connotati di una vera e propria rivincita politica nel momento in cui quei due Stati combattevano una guerra dal doppio nome: las Malvinas per gli Argentini, Falkland per gli Inglesi.

Eppure, nonostante la gloria e la ricchezza, Diego non dimenticò mai che la sua fama era stata la fortunata conversione della finale di un’altra parola – la fame – che aveva contraddistinto le sue origini e che restava ancora il dramma di tanta della sua gente e di tanta parte dell’umanità.

“El pibe de oro” aveva rivelato ben presto d’avere anche un cuore d’oro, colmo di generosità e riconoscenza nei riguardi di tutti quei miseri che gli ricordavano ciò che a sua volta era stato, e d’altruismo nei confronti del suo prossimo più prossimo, compresi i compagni di squadra. Tatuati sulla pelle aveva i nomi di chi amava e di chi era stato per lui modello di pensiero e d’azione, un tributo esteriore ad affetti altrettanto profondamente incisi nella sua anima.

Eppure altra era l’immagine di sé che tendeva a prevalere: quella dell’irriverenza, dell’anarchia d’un leader che forte del proprio valore non riconosce le regole altrui, del fanatismo, della trasgressione.
Del resto si sa: genio e sregolatezza vanno sempre in coppia in personaggi eccezionali.

E così è stato anche per Diego, quando la sua esistenza imboccò la deriva della droga, dell’alcool, della dissolutezza, consegnando il suo corpo e la sua volontà all’autodistruzione.

Cadde, risorse, giacque, precipitando e risalendo più volte dal baratro della dipendenza;
tutto ei provò: la gloria maggior dopo il periglio, la fuga e la vittoria, la reggia e il tristo esiglio: torna ancora una volta il richiamo ai versi manzoniani, che davvero sembrano riproporre una similitudine attualissima in cui si accostano le sorti di due uomini estremamente diversi e distanti nel tempo.

Anche Diego sembra aver vissuto questi suoi ultimi anni in esilio, “vittima”, quasi, d’un passato glorioso e picaresco al tempo stesso, vissuto tra i rimbalzi delle sue contraddizioni, la sola cosa cui sia rimasto sempre coerente.

Eppure, è stato proprio attraverso quelle contraddizioni che ha dimostrato la propria autenticità, rivelando che oltre le sue eccellenze c’erano anche le sue debolezze, la fragilità d’un uomo che non sapeva più gestire l’immagine del dio che era diventato, che, infine, non sopportava più d’essere Maradona pur non potendo smettere di esserlo.

Ora il dio è caduto; è sceso dal suo altare in terra e s’è spogliato della sua falsa divinità, rendendo a chi continuerà a celebrarlo la reale immagine di sé: quella d’un uomo – grande e misero al tempo stesso – che è proprio unendo potenza e debolezza, passione e trasgressione che si è fatto amare ed ha consegnato la sua memoria alla storia.

Fu vera gloria.

Non serve rimettere ai posteri l’ardua sentenza.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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