3 aprile 2021

Il diritto al contatto

Autore: Ester Annetta

Quando, un anno fa, il virus è entrato nelle nostre vite e nelle nostre case, il rimedio più efficace ed immediato è parso quello d’imporre la ferrea regola della distanza.

È subito risultato un canone mal tollerato, un ordine dittatoriale, un ulteriore pretesto d’accusa nei confronti delle istituzioni, contro cui si reclamava – a fronte d’una chiusura totale e generalizzata – almeno il diritto al contatto fisico, rivendicato come condizione essenziale per il mantenimento della socialità e della relazione.

Prima ancora delle istanze antropologiche e psicologiche che riconoscono al contatto fisico la valenza di fattore determinante di crescita e di sviluppo intellettivo, se ne è infatti sottolineato il peso relazionale, asserendo che nessuno strumento tecnologico, nessun canale virtuale di collegamento, si sarebbe mai potuto trasformare in un surrogato della vicinanza.

Gli schermi, i monitor, la DaD sono dunque stati additati a colpevoli della rottura d’un equilibrio di valori fondati sulla relazione, freddi divisori responsabili d’aver alimentato una distanza non solo fisica ma anche emotiva, perversi meccanismi di alienazione.

Ci si è lamentati d’esser stati costretti a farsi catturare dalla rete, imbrigliati come pesci tra le sue maglie per esigenze di lavoro da remoto, bisogni didattici, necessità di comunicazione, lamentando l’aridità di modalità e strumenti che mai avrebbero potuto sopperire al magnetismo d’uno sguardo, al linguaggio d’una postura, alle mute parole d’un sorriso non imbavagliato, al leggero tocco d’una carezza o alla vigorosità d’una stretta di mano.

Il tentativo di ricostruire una comunità, ricorrendo a rituali canori sui balconi, ad appuntamenti virtuali lanciati nello spazio cibernetico, è ben presto naufragato, per stanchezza o per presa di coscienza della sua scarsa efficacia. E di nuovo, dunque, si è tornati a recriminare contro l’imposizione d’un dialogo condotto schermo-a-schermo anziché faccia-a-faccia, contro la solitudine imposta (specie quella dei più anziani, rinchiusi nelle RSA), contro la deriva dei giovani sempre più abbandonati ai social ed ai rapporti virtuali.

Ma davvero il Covid ha tutte queste colpe? O è stato è piuttosto il fattore scatenante che ha scoperchiato il vaso di Pandora d’una serie di mali che già ci affliggevano e che, con straordinaria superficialità, non venivano considerati?

È vero, la distanza fisica ci ha reso soli ed estranei, ma soltanto quel tanto di più che è bastato a farlo notare, poiché nella solitudine e nella estraneità si era già impantanati da tempo. Gli adolescenti trascorrevano anche prima ore e ore barricati dietro i loro schermi di pc, tablet e smartphone, prediligendo comunque relazioni a distanza, persino con sconosciuti, incontrati casualmente nel corso di interminabili partite alla play station, alle uscite con i compagni di scuola o gli amici di quartiere; gli anziani già prima morivano soli e abbandonati nelle RSA, consumati forse proprio dalla solitudine che non dalle malattie; le diseguaglianze tra chi aveva accesso alle moderne tecnologie e chi no avevano determinato un divario sociale già prima della pandemia, e il ricorso alle varie forme di lavoro agile o la Dad non ha fatto altro che evidenziarlo; l’aggressività dei giovani era già manifesta nei loro atti di bullismo e ciberbullismo ancor prima che la stessa Dad diventasse un pretesto per giustificare il loro disagio.

Sì, indubbiamente la pandemia ha innescato un cambiamento che difficilmente, per ora, sembra reversibile, imponendo nuovi modelli di comportamento e nuove prassi. Ma ha anche messo in luce problemi adattivi, diseguaglianze sociali ed economiche, disagi generazionali che già esistevano; a tal proposito, anzi, ha forse avuto il merito e non il difetto d’aver agito come spia d’allarme e pretesto di denuncia.

Altrettanto indubbiamente la pandemia ci ha sfiancato, ha tarpato la vitalità e l’entusiasmo, costringendo ad una prigionia che non ha sbarre né catene ma ugualmente impedisce di sentirsi liberi. Continua tuttavia a dare una lezione che ci si ostina a non voler capire, perché, in fondo, è ben più agevole piangersi addosso, addossarle la colpa di difetti, disagi e compromissioni di cui non è affatto stata causa efficiente ma, semmai, scatenante.

Finisce persino per diventare movente, com’è stato per i ricorrenti femminicidi registrati negli ultimi mesi, o persino attenuante, com’è accaduto di recente, quando la madre del sedicenne aggressore di Marta Novello ha lasciato intendere che l’inaudita violenza del figlio fosse attribuibile all’alienazione causata dalla Dad.

Dovremmo fare, allora, un esame di coscienza, compiere un gesto di onestà, ridefinire gli esatti confini dei “danni d’umanità” causati dalla pandemia, ed approfittare, viceversa, della presa di coscienza che ci ha concesso per agire efficacemente sui “mali sociali” di cui noi soli, la nostra cultura e il nostro avariato senso dei valori siamo responsabili.

Forse, allora, saremo anche in grado di vedere più chiaramente che ‘contatto’ e ‘contagio’ in fondo sono termini che s’assomigliano, perché quest’ultimo ha, prima ancora che un significato medico, associato all’infezione, un significato sociale, aggregante, con cui vuole intendersi il superamento dei confini dell’individualismo e l’apertura verso gli altri, per creare comunità, unione, relazione.

È questo il vero diritto al contatto che dovremmo rivendicare. Prima di tutto verso noi stessi.

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