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Il nome mio nessun saprà

Autore: Ester Annetta
“Io non l’avevo mai visto il mare.

La mia terra non ce l’ha il mare. È chiusa in mezzo ad altre terre, verso Oriente.
La mia casa è in un piccolo villaggio, vicino alla capitale.
Non è una famiglia ricca la mia, però non ci siamo mai lamentati.

Ma quando è arrivata la pandemia, le cose sono cominciate ad andare un po’ peggio. Per tutti.
Nel mio Paese molti bambini muoiono per malnutrizione o per malattie che altrove si possono curare senza problemi: la tubercolosi, il morbillo. È perché non ci sono abbastanza medicine né ospedali. Perciò nemmeno il Covid si è potuto curare.

Mio padre non ha un lavoro fisso, e così durante la pandemia non è riuscito a guadagnare nulla. Era diventato difficile riuscire a sfamarci tutti: io, la mamma e il mio fratellino che stava per nascere.
Ma non volevamo emigrare, lasciare la nostra terra e quel poco che avevamo. Papà diceva sempre che poi, con la fine della pandemia, le cose sarebbero migliorate e avrebbe trovato di nuovo un lavoro.
Invece sono arrivati i talebani e restare è diventato impossibile e pericoloso.
Papà allora ha detto che dovevamo andarcene, perché prima o poi loro sarebbero venuti anche da noi, ci avrebbero cacciati via e ci avrebbero fatto del male.

La mamma piangeva tanto, ma papà la consolava, dicendole che saremmo andati in un posto migliore, in un paese libero, senza guerra, senza prepotenti e senza paura, dove lui avrebbe potuto lavorare e io e mio fratello saremmo andati a scuola.
Io ero triste, ma non potevo far dispiacere la mia mamma ancora di più.
Perciò le ho detto che ero contenta di partire, anche se sarebbe stato un viaggio faticoso, lungo tanti chilometri, e avremmo dovuto anche prendere una barca!
Veramente un po’ di paura ce l’avevo, perché io non so nuotare.
Però che bello: finalmente avrei visto il mare!
Così ci siamo preparati. Abbiamo dovuto lasciare tutte le nostre cose, perché non si poteva portare molto per un viaggio così lungo. Solo qualche indumento di ricambio, che mia mamma ha messo in un lenzuolo legato sulle spalle come un sacco.
Papà mi ha promesso che quando saremmo arrivati avrei avuto anche dei giocattoli e dei quaderni, perciò non ho preso niente di mio, per non avere troppo ingombro. Ho soltanto infilato in una tasca un biberon di quand’ero più piccola, perché ho pensato che poteva servire al mio fratellino quando sarebbe nato.

Abbiamo camminato per giorni. Ogni tanto un camion pieno di altri sfollati come noi ci dava un passaggio per un tratto di strada. Mamma era stanca, si vedeva. Ma non si lamentava. Eravamo sporchi e pieni di polvere, ma conservavamo i vestiti puliti per quando saremmo arrivati. Bisognava presentarsi bene e in ordine nel nostro nuovo Paese.

Alla fine siamo arrivati alla spiaggia. E l’ho visto, anche se era notte.
Il mare.

Non era blu come lo avevo immaginato, ma nero e denso, senza contorni. Non c’era nemmeno la luna a fare un po’ di luce, perché la barca su cui dovevamo salire doveva rimanere nascosta.
C’erano tante altre persone su quella sponda, anche molti bambini come me e persino più piccoli. Una donna ne aveva in braccio uno che doveva essere nato da pochi giorni.

Mamma era preoccupata, diceva che quella barca le sembrava troppo piccola per tutta quella gente e che era pure malandata per poter affrontare il viaggio.
Papà la rassicurava, dicendole che sarebbe andato tutto bene.
Poi è andato vicino ad uno di quei signori che facevano salire i passeggeri sulla barca. Li ho visti parlare un po’. Papà era arrabbiato e gesticolava, ma l’altro scuoteva la testa e gli faceva segno di allontanarsi.

Quando è tornato vicino a noi, papà ha detto alla mamma qualcosa come: “non bastano per tutti” e lei ha detto “allora restiamo tutti”. Papà le ha parlato ancora un po’, sottovoce. Mamma piangeva. Ma alla fine si sono abbracciati e lei ha detto “Va bene”.
Poi papà è venuto da me, si è abbassato fino alla mia altezza e mi ha detto: “ehi, signorina, ora tocca a te prenderti cura della mamma. Hai nove anni e sei abbastanza grande. Io devo restare ancora un po’ qui, ma prometto che vi raggiungerò presto e poi staremo sempre insieme.”
Volevo piangere, ma dovevo dimostrare di essere davvero diventata grande. Perciò l’ho solo abbracciato forte forte e sono subito andata a prendere la mano di mamma.

Eravamo troppi su quella barca, è vero, ma questo ci consentiva di stare molto vicini, compagni di viaggio e fratelli, tutti con lo stesso sogno e con la stessa speranza.
Per quattro giorni abbiamo navigato. C’era silenzio, interrotto di tanto in tanto solo da qualche lamento, dal pianto di un bambino, da un mormorio di preghiera.
Tanti volti, tante storie, tante lingue. C’erano molte mamme; una sposa ragazzina con suo marito; un ragazzo e suo fratello, più piccolo di me, partiti soli anche loro, senza una famiglia. Nessuno si lamentava per la fame o per la sete; più forte di tutto era il desiderio di arrivare.
Qualche ora ancora e avremmo toccato l’altra sponda del mare: quella senza veli, bombe, prigioni.

Poi l’ho sentito. Quel vento caldo di scirocco che porta sabbia e tempesta.
Il mare sotto lo scafo ha cominciato a sollevarsi, a sbattere contro la chiglia, a lanciare spruzzi sempre più violenti. Quel lago nero all’improvviso era diventato una massa d’acqua che si sollevava e ricadeva fragorosamente in onde altissime, muri possenti contro cui la barca sbatteva, si inarcava, vorticava nello strenuo tentativo di non affondare.
Il frastuono dei flutti imbizzarriti era così forte da coprire le voci che ora, tutte insieme, urlavano, piangevano, imprecavano.

La terraferma era lì, a centocinquanta metri appena. Se ne intuiva la sagoma scura anche se era buio e il mare continuava implacabile a scaricare la sua furia.
Poi di colpo, c’è stato uno schianto violentissimo.
Il legno marcio della barca è come esploso, aprendo la stiva a metà.
Ancora urla, ancora pianto. Prima forte, poi sempre più flebile e lontano.

“Mamma, dove sei? Mamma non lasciarmi…mamma, non è vero che sono grande e ho paura...”

***

All’alba il mare non si è ancora placato. Continua a scuotersi impetuoso sotto il vento di scirocco.
Sulla spiaggia compaiono le luci delle torce. Polizia e vigili sono accorsi da terra perché in mare non c’era nessuno che poteva prestare soccorso a chi era caduto in acqua e che per qualche minuto aveva lottato contro i flutti credendo di poter raggiungere a nuoto la riva.

Lo spettacolo che si presenta è agghiacciante: lo scheletro della barca sventrata è spiaggiato, circondato da frammenti di legno, scarpe, brandelli di indumenti e oggetti appartenuti a chi ora galleggia poco più in là, riverso a faccia in giù tra le onde, in una macabra danza di morte.

Alla fine ce l’hanno fatta tutti ad arrivare a terra; ma sono più quelli che giacciono, inermi, allineati sotto lenzuola bianche che i vivi, che, muti e con lo sguardo perso nel vuoto, restano ancora vicini, zuppi d’acqua e sale – mare e lacrime – avvolti in teli termici che rimandano al sole nascente i loro baluginii dorati.

Mi hanno chiamato “Kr14f9”, una sigla che mi individua ma che vuol dire comunque “ignota”.
Non so dove sia la mia mamma, né se lei sappia dove sono io. Spero che stia bene e non abbia più paura.
Penso che in fondo sia meglio morire qui, in una terra libera, piuttosto che in una terra insanguinata dalla guerra, brutalizzata dalla violenza, privata d’ogni sua libertà.
Anche se nessuno sa quale sia il mio nome e mi seppelliranno con una bara bianca, perché ho solo 9 anni.

Sono partita dall’Afghanistan, fuggita dall’orrore e dal dolore, perché mia madre e mio padre sognavano un futuro migliore, per me, per loro.

Sono morta in un’alba d’inverno, a centocinquanta metri dalla salvezza, poco prima di toccare quella terra promessa che mi avrebbe dovuto accogliere come una nuova casa.

Non avevo mai visto il mare.”

***

Nota di Palazzo Chigi di domenica 27 febbraio:

“Il presidente del Consiglio esprime il suo profondo dolore per le tante vite umane stroncate dai trafficanti di uomini. È criminale mettere in mare una imbarcazione lunga appena 20 con ben 200 persone a bordo e con previsioni meteo avverse. È disumano scambiare la vita di uomini, donne e bambini col prezzo del ‘biglietto’ da loro pagato nella falsa prospettiva di un viaggio sicuro. Il Governo è impegnato a impedire le partenze, e con esse il consumarsi di queste tragedie, e continuerà a farlo, anzitutto esigendo il massimo della collaborazione agli Stati di partenza e di provenienza. Si commenta da sé l’azione di chi oggi specula su questi morti, dopo aver esaltato l’illusione di una immigrazione senza regole.”

Si commenta da sé anche questa nota.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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