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Il primo giorno di scuola

(Diario di un insegnante per caso)

Autore: Ester Annetta
Davanti al grande cancello che delimita il cortile della scuola un centinaio di ragazzi, affatto assiepati ed anzi ben distanziati tra loro, attendono in religioso silenzio che la litania dell’insegnate addetta al primo appello chiami il loro nome, per poter confermare con un “Presente!” ben scandito la risposta a quella leva.

Poco distante – perché di certo redarguito dall’avvicinarsi - qualche genitore un po’ più ansioso, ostinato nell’immaginare bambino quello che è ormai un adolescente di già considerevoli misure - attende di assicurarsi che il proprio figlio varchi quel cancello appena il suo nome sia stato chiamato.

Oggi ad entrare sono solo le prime classi: un criterio da sempre adottato per ridurre la possibile confusione del primo giorno di scuola, reso ancor più necessario quest’anno da norme che impongono prudenza e distanziamento.

Il cortile – la seconda stazione di un percorso a tappe – è marcato da croci e linee che individuano le postazioni in cui i chiamati dovranno sostare per essere abbinati alle rispettive classi.

Indossano tutti la mascherina, quella che si sono portati da casa, di foggia e colore diverso; perciò si possono vedere solo gli occhi e non l’intera espressione del viso, né una smorfia, né un sorriso. Ma bastano quegli sguardi a trasmettere una comprensibile preoccupazione, l’ansia tipica di un nuovo inizio, la tensione dell’incognita che accompagna comuni interrogativi: come sarà la mia classe? Mi troverò bene con i miei nuovi compagni? E con i Prof?

Intanto arrivano alla spicciolata anche gli insegnanti. Perlopiù sono colleghi di lunga data e si salutano con entusiasmo e grandi sorrisi. Istintivamente si avvicinano, frenando all’ultimo momento il desiderio d’abbracciarsi o baciarsi, per mimare a distanza un incrocio di guance o un cingere di spalle. È tutto un farsi i complimenti per la nuova linea o l’abbronzatura regalata dall’estate, un reciproco scambio di “come stai” la cui scontata risposta neppure viene ascoltata, un “buon anno” augurato vicendevolmente. L’aula docenti non consente un adeguato distanziamento, perciò anche gli insegnanti finiscono per restare sparsi, confusi tra i nuovi alunni.

Quando l’appello è terminato, in lenta e composta processione quel gruppo eterogeneo di minigonne e jeans strappati che ha appena assunto il nuovo status di “classe” si muove verso l’ingresso. Ma prima c’è un’altra stazione da rispettare: su un banco davanti al portone un flacone di gel disinfettante impone il rito della sanificazione delle mani, mentre quello che un tempo si chiamava bidello ed è ora divenuto collaboratore scolastico, officia una singolare investitura, porgendo a ciascuno una mascherina chirurgica nuova che dovrà sostituire quella già indossata.

L’insegnante deputato all’accoglienza guida quindi quel piccolo esercito nell’aula dove, in quella prima ora, dovrà tenere la più difficile delle lezioni: gli toccherà trovare parole che sappiano sia infondere che conquistare fiducia; dovrà rassicurare e allertare; narrare meraviglie di quel nuovo percorso e rappresentarne tutte le difficoltà; incoraggiare e redarguire; mostrare disponibilità e gentilezza pur mantenendo autorevolezza ed autorità. È il “compito dell’imprinting”, la prima fondamentale impressione, la “copertina del libro” che determina l’interesse e la curiosità per il contenuto.

Gli sguardi sono vivi e attenti; alcuni di quei ragazzi hanno già appiccicata l’etichetta di studenti modello: siedono ai banchi davanti e non distolgono né lo sguardo né l’attenzione da ciò che dice l’insegnante; altri, più arretrati, sono visibilmente più distratti. Qualcuno alza il dito per porre una domanda: istintivamente abbassa la mascherina, ma viene prontamente ripreso perché ancora non è chiaro se, da seduti nei banchi, sia o meno necessario mantenere quella barriera. È lo spunto per introdurre un nuovo decalogo di regole, note, in fondo, ma che suonano come un codice militare imposto a ingenue reclute: non scambiatevi bottigliette o lattine; non dividete merende; non prestatevi penne o matite; non spostate le sedie. Già, le sedie: perché i famosi banchi a rotelle non sono arrivati e nemmeno i tradizionali banchi singoli. Perciò, se un intraprendente ed audace dirigente non si sia messo a segare in due quelli doppi, ecco che le sedie dovranno mettersi l’una ad un capo e l’altra a quello opposto del banco lungo, per consentire di poterci restare in due con una distanza interpersonale regolamentare.

La cattedra non c’è più, o, meglio, ha deposto il suo ruolo di pulpito, di piano rialzato da cui godere della visuale di tutti i volti, di pedana da direttore d’orchestra, per essere relegata in un angolo, ridotta a solo piano d’appoggio, perché non c’è abbastanza spazio per poterne mantenere la sua ordinaria funzione. L’insegnante resta in piedi, senza neppure la possibilità di passare tra i banchi – come avrebbe fatto un tempo – per non rubare centimetri alla distanza che è tenuto ad osservare. L’unico che può infrangere quel divieto è l’insegnante di sostegno, che perciò ha avuto in dotazione anche una visiera e un paio di guanti in aggiunta alla mascherina, trasformandosi in una specie di Dart Fener che incute timore più che ispirare fiducia.

Quei ragazzi, oggi così impettiti e composti, in tempi ordinari sarebbero probabilmente diventati, nel giro di poche settimane, un gruppo “vivace” – come s’usa dire - da cui, inevitabilmente, sarebbero emersi leader e gregari, secchioni e nullafacenti, “buoni e cattivi”.

Ci sarebbero stati i collettivi, le assemblee, le ricreazioni in cortile o lungo i corridoi: tante occasioni che avrebbero portato sana confusione e quei necessari e bellissimi scambi di conoscenze, i confronti, i flirt tra le ragazze del primo anno e i grandi dell’ultimo.

In tempi di Covid, invece, ci sono solo le classi prime a popolare istituti che rimangono vuoti e quasi spettrali, senza voci, suoni, colori. Le classi successive resteranno a casa, con gli alunni che svolgeranno da remoto lezioni e verifiche, mantenendo tra loro una distanza ben più pesante di quella fisica, in cui scompariranno alleanze, goliardate, compiti copiati, suggerimenti camuffati, appuntamenti clandestini, sigarette fumate di nascosto, caricature dei prof, e che nuoceranno tantissimo a quei ragazzi la cui disabilità trovava conforto solo nella relazione.

Il primo giorno di scuola ha sempre portato con sé la malinconia di una stagione finita. Stavolta porta invece la mancanza di una stagione che non comincerà.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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