13 febbraio 2021

Il ricordo e la memoria

Autore: Ester Annetta
Sachsenhausen.

È un nome forse meno noto rispetto a quello del suo omologo Auschwitz, col quale aveva tra l’altro in comune pure la bieca scritta sul cancello d’ingresso, quell’ingannevole “Arbeit Macht Frei” che, sulle prime, deve aver illuso migliaia di deportati. Tuttavia non furono da meno le atrocità che vi si consumarono durante il secondo conflitto mondiale, nonostante fosse classificato come campo di concentramento e non di sterminio.

Creato nel 1936 nei pressi di Berlino e affidato al controllo delle SS, Sachsenhausen divenne un “modello” tristemente famoso: vi si condussero, infatti, i primi esperimenti col gas, utilizzando dapprincipio quelli di scarico dei camion e, poi, le prime, rudimentali camere, antesignane di quelle successivamente impiegate per lo sterminio di massa. Tra il 1936 e il 1945 vi furono imprigionate oltre 200mila persone, metà delle quali, se non soppressa dagli esperimenti, morì per fame, malattie, lavori forzati e maltrattamenti.

In una sorta di emblematico continuum con l’eco appena spento della “Giornata della Memoria”, è giunta pochi giorni fa la notizia che un ex guardiano di quel campo – oggi ormai centenario – è stato incriminato dalla Procura generale di Neuruppin (in Germania) per aver contribuito - dal 1942 al 1944 -, “in modo consapevole” e nel pieno della propria volontà, alla “crudele uccisione” di migliaia di detenuti.

Secondo l’organo di giustizia tedesco, l’uomo, nonostante l’età avanzata, sarebbe ancora in condizione di poter sostenere un procedimento giudiziario; del resto non è neppure il primo, poiché negli ultimi anni sono stati vari, in Germania, i processi ad ex membri, ormai anziani, delle squadre di guardia o del personale amministrativo, in specie dei campi di Auschwitz e Stutthof.

Christoph Heubner, vicepresidente del Comitato Internazionale dei sopravvissuti di Auschwitz, ha commentato la notizia evidenziando che “per gli anziani sopravvissuti dei campi di concentramento e di sterminio tedeschi, questo processo è anche un importante esempio del fatto che la giustizia non conosce data di scadenza e la persecuzione dei responsabili delle SS non deve finire neanche in età avanzata”.

Si tratta, insomma, di Memoria, nel suo aspetto più concreto e reale: quello che non solo non dimentica ma attualizza ancora oggi una tragedia che non ha affatto perso di peso a causa del tempo trascorso.

Ci sono colpe che il tempo non condona né possono cadere in prescrizione, indipendentemente dall’essere stati autori o meri complici dei diretti colpevoli e senza che rilevi la marca, il colore, la bandiera che ha sostenuto quelle miserabili azioni.

La Memoria serve a ricordare anche questo.

Eppure sembra che non funzioni sempre allo stesso modo, che vi sia una sorta di gradualità o di diversa intensità partecipativa anche nel modo in cui si sceglie di ricordare.

È quello che sovente capita di constatare quando si accenna ad un altro sterminio - quello delle foibe - inferiore a quello dei campi solo per numero di vittime ma non certo per gravità.

Se provate a nominare ai nostri adolescenti (ma temo che lo stesso valga anche per numerosi adulti) Basovizza, Tito e gli esuli della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, pochi saranno quelli che non vi guarderanno con espressione interrogativa, complice, forse, anche una pratica commemorativa meno efficace, che tale apparirebbe già nella terminologia: “Giorno del Ricordo” (quello celebrato il 10 febbraio scorso) sembra meno incisivo di “Giornata della Memoria”, come se due sinonimi, ugualmente significanti, fossero poi, di fatto, non ugualmente significativi.
Peraltro – senza con ciò voler azzardare confronti né ardire a pretendere il riconoscimento d’una valenza maggiore – quella delle foibe è storia nostrana, è una delle pagine più dolorose del passato della nostra Nazione. Ed il modo spietato in cui sono state uccise le migliaia di vittime di quell’orrore non è meno raccapricciante di quello degli ebrei mandati nelle camere a gas.

Molti furono quelli che nelle foibe precipitarono ancora vivi, perché legati col fil di ferro ai polsi degli altri condannati che invece ricevevano le raffiche di mitra e che cadendo, li trascinavano con sé nell’abisso. Non c’era via di fuga, e non restava altro da fare che attendere l’arrivo della morte, dopo giorni, magari, in mezzo ai cadaveri dei compagni.

Ed alle morti si sommò il dramma degli esuli, intere famiglie costrette ad abbandonare tutto ciò che avevano dopo la cessione di Istria, Fiume e Zara alla Jugoslavia.

Eppure c’è voluto il crollo di un muro di cemento, nel 1989, perché crollasse anche quello del silenzio; c’è voluto che un Presidente della Repubblica, nel 1991, andasse ad inginocchiarsi a Basovizza per chiedere perdono per quel silenzio durato tanto a lungo; ci sono voluti 60 anni (dal 1943 al 2004, anno in cui il Parlamento approvò la Legge che istituì il “Giorno del Ricordo”, indicandone come data il 10 febbraio, perché fu il giorno in cui, nel 1947, furono firmati i trattati di pace di Parigi, che assegnavano alla Jugoslavia l’Istria, il Quarnaro, la città di Zara con la sua provincia e la maggior parte della cd. Venezia Giulia) perché a quella tragedia fosse restituito il suo valore.

Adoperiamoci tutti perché la sua traccia viva e si conservi anche nelle nuove generazioni, affinché non cadano nel tranello dei falsi protezionismi ed assumano, anzi, la consapevolezza che – nonostante le diverse ideologie e le diverse politiche - le sorti dei popoli si assomigliano:
  • c’è stato un tempo in cui anche noi italiani siamo stati perseguitati;
  • c’è stato un tempo in cui anche noi italiani siamo stati migranti.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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