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Il tempo senza tempo

Autore: Ester Annetta
Ho tolto l’orologio da polso la sera del 4 marzo e, da allora, non l’ho più rimesso.

Quella sera, durante la più attesa di una serie di conferenze stampa, il Presidente del Consiglio, insieme al Ministro Azzolina ha annunciato le prime misure restrittive rivolte alla scuola per l’emergenza COVID-19.

Di lì a pochi giorni, poi, la segregazione che dapprima aveva tinto di rosso soltanto alcune zone del Nord Italia si sarebbe estesa al resto della penisola.

Travolti com’eravamo da un misto di sensazioni - tra cui spiccavano le tante gradazioni che dalla preoccupazione portano alla paura – non eravamo ancora ben consapevoli che quel proclama avrebbe inciso in maniera sostanziale ed inesorabile sulle nostre abitudini e sui nostri ritmi di vita.

L’idea che ci fosse stata concessa un’inattesa “vacanza” ha gradualmente perso di consistenza, risucchiata dalla presa di coscienza che quel termine dovesse intendersi in maniera diversa, recuperando il suo originario significato latino di “esser vuoto”.

Le ore ed i giorni hanno così iniziato a dilatarsi, rendendone inutile - oltre che penoso - il bisogno di una misura.
Tutti, in maniera più o meno diversa, ci siamo ritrovati a fare i conti con impegni, decisioni, lavori ed esistenze sospesi. Abbiamo imparato a riconoscere i volti della solitudine, accorgendoci che non si riduce alla sola alternativa tra “scelta” o “necessitata”.

Abbiamo scoperto una solitudine nuova, inaspettata, in cui si ritrovano una serie di attributi che ne connotano il valore ponderale e, dunque, il grado di impegno e di fatica che viene richiesto per fronteggiarla. Accanto ad una solitudine accettata, consapevole, persino produttiva, c’è infatti quella sofferta, quella “prigione” e, soprattutto, quella dolorosa. In tanti si sono infatti ritrovati a fare i conti col dolore di una perdita che la solitudine ha cagionato o ha favorito: quella di un lavoro, che fino a qualche giorno prima c’era e d’un tratto non c’era più; quella di un’opportunità, che è passata come un treno che non si è fermato in stazione; quella di una persona cara che non ce l’ha fatta e che se n’è andata nel silenzio di una sepoltura in cui sono mancate strette di mano ed abbracci consolatori.

Ci siamo ricordati anche della solitudine di chi era già solo: per primi, un popolo di anziani privati anche dell’unica opportunità di contatto esterno che per loro rappresentava il sacchetto con mezza pagnotta ed un litro di latte comprati a giorni alterni; e, ancora, lo sterminato esercito di coloro che non hanno potuto obbedire alla raccomandazione di restare a casa perché una casa non ce l’hanno e si vedono ora privati persino della possibilità di ricevere un pasto caldo, qualche indumento pulito e, soprattutto, cure.

Non serve un orologio a scandire questo tempo.

Anzi, è giusto avvertirlo in tutta la sua lentezza e la sua pesantezza, perché ci offre finalmente l’occasione di far caso alla vita che ha continuato a sfilare velocemente ai bordi di quell’autostrada su cui eravamo soliti lanciare a folle velocità la nostra.

È un tempo vuoto d’altro, ma pieno di altre consapevolezze: come comprendere che sorridere a chi, a distanza di sicurezza, fa la fila insieme a noi davanti all’ingresso del supermercato è un segno di condivisione; che attaccare sul portone del proprio condominio un cartello con cui ci si offre di far la spesa per gli anziani soli è un gran gesto di solidarietà; che fermarsi a dire due parole di conforto al barbone che per l’ennesima notte dormirà in strada senz’altra protezione che quella di qualche Santo è un gesto di umanità che va oltre la paura.

È un tempo vuoto d’altri, ma pieno di noi stessi: perché ci consente di scrostare la ruggine dai nostri sentimenti, di metterci nei panni di chi prima nemmeno vedevamo, di cogliere il valore della solidarietà che ci accomuna anche a chi non conosciamo, che sia il dirimpettaio che prima ci limitavamo a salutare davanti all’ascensore o il vicino di balcone che ogni pomeriggio ci dà appuntamento per il coro dell’indomani.

Mi viene in mente una canzone - forse non troppo conosciuta - che racchiude in pochi versi il senso di questo tempo. A cantarla era Carla Bissi, in arte Alice, un’autrice di quelle che hanno usato il palco di Sanremo solo come trampolino per arrivare a piani d’altra levatura, collocandosi poi nella nicchia dei colti e delle voci che cantano allo spirito.

Ha un titolo emblematico: “Il tempo senza tempo”, e dice così: Ora più che mai/ I giorni sempre uguali/ Non li conto, non li sento/ Ritrovo le mie radici/La mia identità./Il tempo senza tempo/Tra il sogno e la realtà./E cammina lento il corso della vita./Il messaggio è nel silenzio, nella sobrietà./Dal vuoto risale la dignità che ha senso/In quest'angolo di terra/Ritrovo il comportamento che è nella libertà.

Che questo tempo senza tempo possa allora darci almeno il giovamento di illuminare la nostra anima e la strada per ritrovare noi stessi.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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