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Io capitano

Autore: Ester Annetta
La prima cosa che salta agli occhi è ciò che indossano: magliette da calcio delle grandi squadre, tute sportive e calzature di noti marchi, felpe con il monogramma chiaramente contraffatto di grandi firme della moda; indumenti in tutto e per tutto simili a quelli indossati dai loro coetanei in qualunque occidente della Terra, etichette di un mondo globalizzato, soggiogato dal fascino di oggetti di culto che denotano uno status.

Ed è proprio questo l’impulso che muove Seydou e Moussa, che, con i loro 16 anni, dagli stretti confini del loro villaggio e della loro terra – il Senegal – sentono la necessità di dover evadere e raggiungere i luoghi magici che hanno imparato a conoscere sui video di You Tube e tramite la rete. Luoghi dove possono ambire ad essere come i loro simili, coltivare le loro stesse passioni, ambire agli stessi traguardi, arrivare un giorno anche alla fama di rapper, diventando perciò “neri che firmano autografi ai bianchi”.

Parte tutto da qui, dal sogno ingenuo di due adolescenti, il viaggio raccontato da Matteo Garrone nel suo film “Io Capitano”, fresco di premiazione a Venezia e selezionato per rappresentare l’Italia ad Hollywood nella corsa agli Oscar. Un viaggio che, contro quelle realtà divenute ormai quasi degli stereotipi – migranti in fuga da guerre, fame e miseria – racconta anche un’altra motivazione di partenza: l’approdo in terre generose e fortunate dove i desideri possano prendere forma e sostanza, dove le opportunità negate dalla sorte d’essere nati nei luoghi meno fortunati del mondo possano essere recuperate, per arrivare infine a pareggiare con chi ignora la fatica della conquista.

Ed è solo il primo degli elementi che spiazzano nella narrazione di Garrone. Gli altri si scoprono poco alla volta, nel mentre si srotola la vicenda, che mantiene quasi costantemente la pacatezza del suo inizio, senza scossoni, senza scene rabbiose o violente, se non il tanto che basta a lasciare alla mente di immaginare il resto. Così ogni elemento resta appena accennato: le insidie del cammino, la traversata di quelle immense vastità che cambiano solo consistenza e colore – prima è il deserto, poi è il mare – i ricatti, le torture, la paura, la solitudine, il dolore di chi per salvarsi deve poter guardare sempre in avanti senza mai voltarsi a tendere la mano a chi è rimasto indietro per non rischiare di fermarsi e perdersi a su volta.

Eppure è proprio in quell’accennare appena ogni segmento del viaggio ed ogni suo retroscena – compresa l’origine di certe ferite, che siano di tortura o di indifferenza - che risiede la potenza di questa storia, intessuta con i fili delle tante altre, vere, che l’hanno ispirata.
Non serve marcare o esasperare scene o vicende di cui, in fondo, siamo tutti consapevoli; storie che tutti conosciamo, narrate quotidianamente da documentari o notiziari; esiti fausti o infausti di traversate compiute per disperazione, non certo per vacanza; approdi di vivi e (spesso anche) di morti.

Ciò che Garrone ha voluto, invece, è stato capovolgere la prospettiva, offrire non quella ordinaria e consueta “dello spettatore”, che registra soltanto la notizia - di uno sbarco, di una nuova tragedia in mare, di un collasso dei centri d’accoglienza, di una propaganda che preferirebbe respingere anziché accogliere - ma quella “del protagonista”, la sua personale e diretta esperienza, attraverso un percorso di autentica formazione che, partendo da ingenue motivazioni, arriva alla conquista di una consapevolezza ben maggiore rispetto a quella delle premesse e di una inimmaginata umanità.

Ed è anzi proprio questa umanità – che mai manca alle vittime! – il filo sottile che corre lungo tutta la pellicola e che si rivela anzitutto in quegli accenti onirici che, in un paio di punti del racconto, conferiscono un tocco fiabesco: il loro intento non è infatti di rompere la linea di continuità del reale inoculando una dose di fantasia, quanto piuttosto veicolare una morale, com’è sempre stato nella tradizione delle fiabe.

Quel motivo ritorna, pure, nel legame di solidarietà che stringe Seydou e Moussa e continua a tenerli uniti nella loro avventura anche quando saranno separati; nella protezione che un gigante buono offre a Seydou, spacciandolo come suo collaboratore carpentiere per sottrarlo alla prigionia in Libia; nel tentativo di Seydou di salvare una donna arresa alla sete ed alla fatica della traversata del deserto; nel suo coraggio nel portare in salvo il suo carico di dolore e speranza quando viene messo alla guida di una fatiscente imbarcazione per attraversare il Mediterraneo.

Lui, che una barca non l’ha mai guidata e neppure sa nuotare, rompe anche l’immagine dello scafista ricorrentemente proposta: non un bieco criminale, un approfittatore, una mercante di vite umane, ma un disperato a sua volta, che cede al ricatto di chi ritiene non bastino i soldi che possiede per attraversare quella striscia liquida e insidiosa che separa la terra del nulla dalla terra del tutto.

“Io Capitano”, urla Seydou, ma solo quando la terra è orami in vista, dopo aver tenuto il timone per giorni senza mai chiudere occhio, avendo sedato esplosioni d’ ira e fatto partorire donne, avendo tenuto a bada animi ed onde rivolgendo preghiere ad ogni Dio conosciuto ed invocato.
Lo sfarfallio delle eliche dell’elicottero della guardia costiera sovrasta le voci e i rumori, ma non copre il non detto contenuto in quello sguardo intenso con cui Seydou guarda alla salvezza ormai conquistata.

Neppure ciò che accade dopo necessita d’essere raccontato, noto com’è a chiunque sappia del vuoto di norme, dell’esubero di burocrazia, della scandalosa indecisione di governi, responsabili di ritardare le sorti di quei tanti miserabili che incartati in luccicanti teli termici come uova di pasqua, attendono da altri la sorpresa che sanno di non contenere.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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