Rimani aggiornato!
Iscriviti gratuitamente alla nostra newsletter, e ricevi quotidianamente le notizie che la redazione ha preparato per te.
È un’alba di primavera, bella e languida come solo sa essere quel delicato frammento di tempo che squarcia il buio con la sua tiepida luce prima di cedere il passo al sole dirompente.
Il cielo promette sereno.
Da qualche tempo mi capita di svegliarmi presto e di accogliere davanti alla finestra l’annunciarsi di un nuovo giorno. Non c’è una sveglia che suona, non c’è una rigorosa tabella di marcia da seguire e svegliarsi non significa necessariamente restare sveglia: più tardi potrò ancora tornare a dormire, se vorrò, abbandonarmi ad un tempo disordinato non più scandito da rituali e orari.
L’immobilità di questo tempo è ovunque: nelle case, nei cortili, nelle strade. A correre veloci restano solo i pensieri.
Non c’è alcun rumore là fuori; quello scorrere di traffico lontano che fino a qualche settimana fa sentivo in lontananza, simile al corso d’un fiume a stento trattenuto dagli argini, s’è acquietato, ha lasciato spazio ad altri suoni meno conosciuti: lo stormire del vento tra i rami degli alberi, il cinguettio degli uccelli, il lungo e stonato miagolio dei gatti in amore.
Un rumore in strada mi distrae dai miei pensieri: un fruscio di cui nemmeno mi accorgerei se non fosse un’alba così silenziosa, un’alba dei tempi del virus. È quello di una scopa di saggina, di quelle che nella fantasia usano le streghe per volare, ma che nella realtà sono più umilmente lo strumento di lavoro di un netturbino.
E difatti è lì: con addosso la sua tuta arancione rifrangente; indugia con la sua scopa davanti al cancello del mio condominio, raggruppando foglie secche e cartacce in piccoli mucchietti che la macchina aspiratrice che lo segue a distanza sopraggiungerà di lì a poco ad ingoiare.
Indossa anche lui una mascherina, di quelle chirurgiche, semplici, e non ha alcun’altra protezione, nonostante il suo sia uno dei lavori tra tutti più esposti alla sporcizia, alle infezioni, ai contagi.
Lo guardo con tenerezza, immaginando come lui tante altre persone che desidererebbero quella prigionia di cui tutti noi altri ci lamentiamo, pur di non tornare ogni sera a casa con addosso il fardello non tanto della fatica quanto della paura d’ammalarsi, di poter infettare i propri cari.
Penso allora all’incoscienza ed all’ingratitudine di chi lamenta la solitudine cui questo tempo l’ha costretto, l’inquietudine che lo rende scontroso ed arrabbiato, come un animale in cattività che invidia da dietro le sbarre lo scorrere della vita altrui, ritenendosi sfortunato piuttosto che protetto.
Penso a quanto tutti noi ci sentiamo oppressi da una regola che ci impone di fermarci senza darci ancora una scadenza; penso a quanto questo isolamento forzato ci faccia sentire senza ossigeno, quasi fossimo noi sani i veri contagiati dal virus; penso a quanto questa angoscia ci impedisca di vedere che dopo – oltre questo male, oltre questo tempo – ci sarà un ritrovarsi un cui tutto l’ordinario ci sembrerà straordinario, il quotidiano ci restituirà il senso dell’essenzialità e avremo guadagnato una vista in grado di discernere il superfluo dal necessario.
Un grande vescovo, ma prima ancora un grande uomo, quale è stato Don Tonino Bello, ha scritto che Pasqua è “il giorno dei macigni che rotolano via dall’imboccatura dei sepolcri”, intendendo i macigni della solitudine, della miseria, della malattia, dell'odio, della disperazione che rotolano via dall’anima, lasciando filtrare l’aria e il sole.
Domani sarà Pasqua. Una Pasqua strana, silenziosa, solitaria, in cui il suono delle campane echeggerà più forte che mai nel silenzio assoluto, saturando l’aria ormai pura, salendo verso un cielo che, a dispetto d’ogni consuetudine, sarà terso e luminoso come non mai.
Che non sia un giorno triste, di rimpianto per ciò che non può ancora essere e di confronto con ciò che e sempre stato, né di rabbia, né d’inquietudine.
Che sia invece un rotolare rumoroso di pietre che ci liberino dal nostro egoismo, dalla nostra ingratitudine, dall’invidia che proviamo per quel netturbino che paradossalmente oggi giudichiamo più fortunato di noi perché è fuori in strada, e di cui ci accorgiamo solo adesso che le città sono vuote e silenziose; figure umili, infime, eppure preziose, come tante che la nostra fretta, la nostra disattenzione, il nostro disinteresse ci ha fatto sempre ignorare.
Che sia un altro giorno di nuove consapevolezze.
Questo è il mio augurio di Pasqua per tutti noi.