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L’altra Cuba

Autore: Ester Annetta
È inverno a Cuba, di quelli che tutti noi occidentali sogneremmo di avere: senza ingombranti piumoni né sciarpe, senza regolamenti condominiali a disciplinare l’orario del riscaldamento e con un thè caldo in mano sorseggiato non per cercare tepore ma per puro piacere, in alternativa ai consueti cocktail caraibici.

Perciò sono contenti i cubani la volta in cui una giornata nasce più scura o bagnata di pioggia. Li conforta dalla pena di un’estate perenne: la noiosa norma di sempre per loro; un paradiso per qualunque turista.

Siamo stati indotti dal pensare comune ad immaginarla come la terra delle trasgressioni, delle donne disponibili, del sesso prêt-à-porter, del mojito in spiaggia e della salsa ballata ad ogni angolo di strada: la meta del “mollo tutto e vado via” che, almeno una volta nella vita, ognuno ha invocato come rifugio dallo stress quotidiano.

Ma la vera Cuba non è questa, né tanto meno quella dei tanti, identici, resort allineati sulle lunghe spiagge bianche di Varadero o di uno qualunque dei tanti altri “cayo” che ne contornano le coste e le isole minori.

Non si illustra su una cartolina, ma va vissuta, respirata, rubata nei suo tanti scorci nascosti, dove pulsa vivo e autentico il suo spirito.
Cuba è quella in cui ci si imbatte tra le antiche strade di l’Avana Veja, dove le case si addossano l’una all’altra per prendere poi fiato dalle larghe finestre incastonate tra colonne e muri colorati: occhi attraverso cui può scorgersi la vita che vi scorre dentro, la quotidianità di frutta e panni stesi al sole, di dondoli che cullano mollemente corpi stanchi e volti rugosi, di vecchie pale di ventilatori, d’afa e di mosche.

È quella delle avenida a scacchiera di Trinidad, dove, tra le vecchie case coloniali, basse e colorate di giallo, verde e azzurro (un tempo contrassegni di ordini e gerarchie) non c’è il rischio di perdersi, quanto piuttosto quello di non poter mantenere saldo l’equilibrio sul suolo fatto interamente di grosse pietre ormai levigate dall’uso. Degradano concave dai lati al centro, che accoglie un rivolo d’acqua che trasuda perpetuo da antiche condotte di terracotta e su cui gli zoccoli dei cavalli, che ancora oggi trainano carrozze, scandiscono un ritmo secco, continuo e regolare. Il tempo si perde a Trinidad, fermo a secoli fa, arretrato addirittura a quel 1514 che ne ha visto la nascita, terza tra le città fondate dai padri colonizzatori spagnoli.

È quella di Cienfuegos, “la Parigi di Cuba”, rinata nell’800 come una fenice dalle macerie lasciate dall’uragano che l’aveva devastata; votata a canoni di ordine ed eleganza inconsueti rispetto ad altri abitati, ma pur sempre fedele allo stile coloniale.

È quella dei magnifici monti della Guanayara, dove, percorrendo sentieri immersi tra boschi in cui convivono alberi rigogliosi, palme e piante di caffè, ci si può trovare di colpo al cospetto di una cascata o di un laghetto, uno specchio d’azzurro dove immergersi è il brivido di un attimo che subito dopo rigenera e tonifica.

È quella della storia di una rivoluzione, piccola eppure grandiosa, combattuta al contempo contro una dittatura visibile ma anche contro un nemico occulto, simbolo di un sovranismo che negli anni non ha mai cambiato connotati né bandiere. Una lotta nazionalista, sostenuta dal germe di una libertà seminato da uomini ribelli e coraggiosi, che, di fronte all’alternativa tra victoria o muerte, non hanno esitato ad accettare di morire in nome di un ideale mai tradito. Uomini che sono divenuti miti di un passato che ha ancora forte il suo riverbero sul presente, simboli di un imperituro Siempre!, memoria e nutrimento di un popolo intero.

È quella che si fa beffe di un crudele embargo - figlio del risentimento e della prepotenza - costruendo una tribuna antimperialista di fronte all’ambasciata su cui svetta il vessillo a stelle e strisce.

È quella di una fede che coniuga santeria e santità, di un comunismo che non è mai sceso a compromessi e che risponde alla totale condivisione con altrettanta restituzione, garantendo livelli di alfabetizzazione e di assistenza sanitaria eccellenti senza spesa alcuna.
È quella di gente che gusta la vita con lentezza, che accoglie lo straniero con allegria, che non chiede niente di più di ciò che sa riconoscere essere il giusto costo di ciò che offre, dignitosamente composta e paziente in mezzo all’arcobaleno di colori della merce esposta a vista in botteghe che altro non sono che l’anticamera delle loro stesse abitazioni.

È quella di strade strette, stese per chilometri come fettucce da un centro abitato all’altro, più simili a passerelle dove lo spettacolo di una natura varia e straordinariamente rigogliosa sfila senza soluzione di continuità, stordendo i sensi con la sua bellezza.

È quella della musica che origina in ogni dove: nel ventre delle case, agli angoli di strada, sui gradini di una chiesa, e che si insinua nelle orecchie e nella mente, per scendere poi fino all’anima e diventare il ritmo dei passi e dei pensieri.

È quella di scorci che sembrano dipinti, di auto colorate – memoria di altri tempi ed altra ricchezza – che trasformano le strade in un museo rodante (come lo definiscono i locali); di cappelli di foglie di palma intrecciate, di racconti di un Vecchio e il mare, narrato dalla penna di uno scrittore capitato per caso su quest’isola e innamoratosene a tal punto da non volerla lasciare più; di leggende sorte intorno a motociclette e grandi uomini, di un’alta stele su cui svetta la statua di un Comandante; delle casas particulares che tengono testa agli hotel delle grandi catene, di aragoste y pescado offerti come pasti ordinari e non di lusso, di foglie di tabacco arrotolate a mano, di bevande che sanno di tradizione prima ancora che di moda.

Poi ci sono anche i villaggi vacanze pieni di ricchi canadesi e di russi (ma pure di italiani); gli animatori che illudono gli avventori che la salsa si possa ballare con tre passi; le escursioni di gruppo, in cui mandrie di turisti scottati dal sole e con addosso la maglietta con l’effige del Che si muovono come ignavi dietro una bandierina che li precede, soffermandosi alla superficie del molto che non vedono.

Quella non è Cuba.

È anzi una vacanza qualunque, in un luogo qualunque uguale a mille altri, niente affatto significativo di quell’”Altrove” così vero e reale che può essere quest’isola, quando si segua l’intuizione di doverne vivere l’anima, di farsi sorprendere dai suoi non-detto, di amarla come merita una bellezza che non si concede troppo facilmente.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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