23 maggio 2020

L’invito alla legalità del 23 maggio

Autore: Ester Annetta

Se si va a ritroso nel tempo, è agevole accertare come la lunga scia di sangue tracciata dalla mafia scavalchi il secolo ‘900, andando a coincidere con gli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia. Del resto le origini del fenomeno mafioso sono ancora più remote, potendosi collocare tra quelle delle società segrete che nei primi decenni dell’ottocento tentarono di avversare la Restaurazione.

La mafia può dirsi dunque che esista da sempre, laddove quel sempre si faccia coincidere con la nascita della nostra Nazione unita. Ne ha seguito le vicende e, con essa, è entrata a far parte della nostra storia, delle guerre e della politica, ricoprendo in ogni tempo, innegabilmente, un ruolo di rilievo.

E, tuttavia, la mafia che la nostra memoria collettiva ricorda più marcatamente ha un passato più recente, che è anche quello più sanguinoso; è la mafia che si identifica con i volti e con i nomi dei tanti che, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, hanno accettato il destino di poter essere vittime, pur di portare alla luce intrecci e connivenze e di combattere in nome della legalità.

Spampinato, Impastato, Siani, Fava, Giuliano, Torre, Dalla Chiesa, La Torre, Chinnici, Rostagno, Matterella, Livatino…. Ciascuno con i propri strumenti, ognuno col proprio ruolo sono stati protagonisti di un impegno che nemmeno la loro morte ha scoraggiato e si è trasmesso come un testimone, fino a consentire d’arrivare – nel 1986 - a quel maxi processo che per la prima volta ha inferto un colpo deciso alla stabilità della struttura di Cosa Nostra.

475 imputati passano dietro le sbarre; 346 di loro vengono condannati in primo grado: lo Stato, con quell’azione, finalmente dimostra d’essere deciso ad interrompere ad ogni costo il rapporto di convivenza, subalternità e dipendenza nei confronti della mafia.

Al termine di un processo durato sei anni, il 30 gennaio 1992, dopo dieci giorni di Camera di Consiglio, i giudici della sesta sezione penale della Corte di Cassazione emettono infatti la pronuncia di conferma di tutte le condanne comminate in primo grado. Soltanto un paio di settimane dopo, su impulso del giudice Di Pietro, un nuovo scandalo catturerà la scena, innescando un gigantesco effetto domino da cui l’intero mondo politico verrà travolto, e che culminerà con la fine della prima Repubblica, l’atto conclusivo di quello che, in sostanza, è un unico, generale e definitivo repulisti.

Ma proprio allora, da quell’impalcatura ormai scardinata compresa tra una Base ed una Cupola, si leva l’estremo “canto del cigno”, l’ordine di vendicare la disfatta ricevuta immolando qualcuno che ne sia il simbolo, affinché lo smacco ricevuto non passi del tutto come un “torto” impunito.

È il 23 maggio 1992. Alle 17.56, lungo l’autostrada che collega Palermo all’aeroporto di Punta Raisi, all’altezza dello svincolo di Capaci, un’esplosione di inaudita potenza causata da 500 chili di tritolo travolge le auto su cui viaggiano il giudice del pool antimafia Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, gli agenti Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.

Poco meno di due mesi dopo, il 19 luglio 1992, un altro boato risuona in via D’Amelio, a Palermo; un’autobomba con 50 chili di tritolo esplode, uccidendo il giudice Paolo Borsellino del pool antimafia e cinque uomini della scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina.

L’immagine di Falcone che bisbiglia all’orecchio di Borsellino mentre entrambi sorridono complici diventerà da quel momento in poi l’emblema del coraggio e dell’unità d’intenti, l’invito a non arrendersi nel portare avanti la lotta alla mafia, che non è affatto sconfitta. “Chi ha paura muore ogni giorno. Chi non ha paura muore una volta sola” aveva detto Borsellino, ed anche quelle parole, insieme a quell’immagine, diventano un’eredità, una consegna lasciata non solo agli italiani ma a tutti i paesi che intendono far propria la lotta contro le mafie. Il 15 dicembre 2000 viene perciò firmata a Palermo la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, cui aderiscono 189 paesi con l’impegno a recepire nella propria legislazione nazionale misure di contrasto, prevenzione e cooperazione nella lotta contro le mafie, perché la mafia non è solo della Sicilia, non è solo dell’Italia, ma è una “piovra” che ha tentacoli che agiscono a livello mondiale.

Il 23 maggio è intanto diventata una data simbolo: nel 2002 il MIUR e la Fondazione Falcone decidono perciò di eleggerla a “Giornata nazionale della Legalità”, promuovendo progetti di educazione alla legalità nelle scuole di ogni ordine e grado, col patrocinio di Forze dell'Ordine, Autorità nazionale anticorruzione, Procura nazionale antimafia, Consiglio superiore della Magistratura, Corte dei Conti.

L’iniziativa interpreta e simboleggia un altro grande insegnamento lasciato da Giovanni Falcone: “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. Trasmettere la cultura della legalità, educare le nuove generazioni secondo i suoi principi, è la base per costruire una società nuova, depurata dai vizi del passato, pronta ed attiva nel fronteggiare le minacce di sistemi di potere radicati.

Dalla Nave della legalità che ogni anno parte da Civitavecchia approdando a Palermo con un carico di oltre mille ragazzi delle scuole italiane alle tante manifestazioni organizzate nelle piazze, il 23 maggio esalta l’onore ed il coraggio, la libertà e la solidarietà, la necessità di abbattere l’omertà ed il silenzio, ed impegna tutti i cittadini al rispetto reciproco ed a quello delle leggi, affinché non debbano esserci più martiri e vittime immolate alla difesa dello Stato.

Quest’anno – che celebra tra l’altro il 28° anniversario degli attentati ai giudici Falcone e Borsellino – l’emergenza Covid-19 non fermerà le manifestazioni per la Giornata della legalità che, anzi, dovrà far sentire ancora più forte il suo richiamo in questo contesto fiaccato dal virus, dove l’impoverimento del tessuto socio-economico che ne è scaturito si presta ad incoraggiare il sistema criminale, ampliando il rischio d’aumento di spaccio di stupefacenti, riciclo di denaro, gestione appalti, prestiti usurai e finanza occulta.

Perciò, se anche non salperanno navi e non ci saranno cortei e raduni, la volontà di virare nella direzione della legalità dovrà ugualmente essere ribadita: basterà appendere un lenzuolo bianco dal balcone di casa ed affacciarsi alle 18 del 23 maggio mantenendo un minuto di silenzio.

Sarà per tutti il segnale che “le idee continuano a camminare”. Nonostante tutto.

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