17 ottobre 2020

L’ultima lezione di Liliana

Autore: Ester Annetta

È il 30 gennaio 1944; un treno, originariamente destinato al trasporto postale, attende un carico speciale nella stazione di Milano Centrale. È fermo al Binario 21, quello sotterraneo, celato alla vista di viaggiatori e passanti: il binario dell’indifferenza.

Il viaggio che sta per intraprendere è uno dei ventitré che, tra il 1943 e il 1945, compirono la stessa tratta di sola andata verso Auschwitz e ad altri campi di concentramento.

Nei vagoni vengono stipati 605 cittadini italiani di famiglia ebrea, al buio; al freddo; senza cibo e con la dotazione di un secchio che ben presto si sarebbe colmato di quel genere di “bisogni” che occorre rigettare piuttosto che pretendere e che, tra persone spaventate, fa presto a riempirsi…
Tra quei passeggeri umiliati e spaventati c’è anche una ragazzina di tredici anni, che per tutta la durata del viaggio – cinque giorni – resta aggrappata al braccio di suo padre, un uomo-bambino che a volte la consola e a volte si fa consolare da lei.

Quando il treno giunge a destinazione, 477 di quei passeggeri, compreso il padre della ragazzina, vengono immediatamente condotti alle camere a gas. Gli altri, attraverso un cancello sormontato da una scritta menzognera, vengono smistati in un non-luogo, dove saranno spogliati dei loro abiti, della loro identità (riconvertita in un numero) e, soprattutto, della dignità, dis-umanizzati, privati d’ogni sentimento altro dalla paura.

Inizia così il racconto di Liliana Segre, la tredicenne d’allora, passata attraverso l’orrore, la fame e la paura, per diventare “l’altra” – come lei stessa dice – quella che ancora oggi, a novant’anni appena compiuti, testimonia, più che il suo essere sopravvissuta, la propria rinascita e la consapevolezza d’essere latrice d’un messaggio di speranza, di solidarietà e di umanità da lasciare in eredità a tutte le generazioni future.

A Rondine - la piccola frazione di Arezzo divenuta Cittadella della Pace, grazie all’opera dell’omonima associazione che, a partire dal 1997, promuove la cultura della pace e del dialogo, in particolare favorendo la convivenza tra persone provenienti da paesi in conflitto tra loro – la senatrice ha voluto simbolicamente accomiatarsi dal pubblico delle scolaresche che, a cominciare dal momento in cui, circa trent’anni fa, ha superato il blocco del silenzio che solitamente avvolge un dramma vissuto, sono state le destinatarie favorite del racconto della propria esperienza.

Si, perché alcuni pezzi di storia non basta studiarli sui libri per conoscerli; non si riducono a date, eventi, nomi, ma hanno bisogno delle testimonianze, hanno bisogno d’essere personificate negli uomini e nelle donne che l’hanno attraversati, che ne hanno il marchio impresso sulla pelle e nell’anima, affinché il loro significato diventi realmente comprensibile e la conoscenza si accompagni alla consapevolezza.

Per più di trent’anni questo ha fatto Liliana: ha restituito alla storia i suoi colori scuri e tenebrosi, l’orrore celato, denunciando il crudele accanimento degli uomini contro i propri simili ed il conseguente scadimento delle vittime, divenute impermeabili all’empatia, refrattarie all’altruismo, preoccupate unicamente della propria sopravvivenza.
Ma ha rivelato anche la bellezza della vita, il miracolo dell’umanità, la grandezza della pietà degli Uomini per i propri fratelli più disgraziati, l’importanza della missione d’educare le nuove generazioni alla tolleranza.

Ha raccontato la sua storia Liliana, come ha fatto sempre, in ogni occasione in cui le è stato richiesto. Eppure è stato come ascoltarla per la prima volta, perché è sempre nuovo, vivo e vero il sentimento di com-passione (inteso nel suo significato filosofico di “sentimento per il quale un individuo percepisce emozionalmente la sofferenza altrui desiderando di alleviarla”) che questo viaggio nella memoria suscita.

Liliana è andata avanti senza inciampi, seguendo il filo della narrazione – che è poi quello dei suoi ricordi – in maniera limpida, semplice, ed è stato come veder scorrere la pellicola di un film in cui tutto ciò che si ascolta diventa visibile, concreto, come se stesse accadendo in quel momento, sotto i propri occhi. L’orrore per se stessa che Liliana ha raccontato d’aver provato nel momento in cui si è sentita rivoltata del proprio essere, del proprio sentire e privata d’ogni moto compassionevole, sono ora l’ombra lontana di quel che avrebbe potuto diventare e che non ha voluto essere, perché ha scelto di “vivere”, in maniera piena, totale, resuscitando la sua anima e mettendo da parte ogni sentimento d’odio e di vendetta che l’avrebbero altrimenti resa uguale ai suoi aguzzini.

“In quei campi c’era una sfrontatezza che mi ricorda certi branchi di oggi. Le nostre guardie avevano una sicurezza indistruttibile di superiorità, erano convinti di appartenere ad una razza superiore. Ma quale razza? Quella umana? No, non erano umani, erano mostri. Ecco perché quando qualcuno mi chiede se ho perdonato rispondo sempre di no. No, non ho avuto quella forza. Io certe cose non sono riuscita mai a perdonarle”.

Liliana non ha dimenticato il male che ha subito e che l’ha marchiata profondamente; non l’ha nemmeno perdonato. Ma ciò non le ha impedito di vincerlo, di non lasciarsene sopraffare, di ritrovare quella parte di sé da innestare sull’”altra” che era diventata per “bonificarla”, per poter sopprimere il desiderio di vendetta e l’indifferenza che l’avevano resa impassibile al dolore dei suoi stessi compagni di prigiona, come Janine: non si era voltata a guardarla, non l’aveva chiamata per nome, non l’aveva rassicurata con un “ti voglio bene” quando - esaminata subito dopo di lei dall’occhio indagatore d’un supervisore che aveva notato le due dita da poco recise da un macchinario - non passò la selezione che l’avrebbe considerata ancora abile al lavoro e fu perciò condotta alla camera a gas.

Un lungo, interminabile applauso ed occhi lucidi visibili al disopra delle mascherine hanno salutato l’ultima lezione di vita della donna, della testimone, della maestra Segre, insieme allo sventolio delle ali di farfalle gialle di carta cui i ragazzi presenti - allineati in rigoroso ordine anti-assembramento – hanno affidato i loro pensieri.

D’ora in poi Liliana non racconterà più la sua storia, e in pochi sono i reduci dallo stesso dramma che potranno ancora farlo. Tra qualche anno non ne resterà più nessuno, perché sono uomini e donne, che la tragedia cui sono sopravvissuti non ha di certo reso eroi immortali.
Ma immortale dev’essere il monito che, attraverso la loro testimonianza, avranno lasciato: nessuna negazione, nessun condono, ma il dovere d’una memoria che dovrà essere mantenuta sempre viva affinché gli errori e gli orrori della storia non si ripetano.

 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
Iscriviti alla newsletter
Fiscal Focus Today

Rimani aggiornato!

Iscriviti gratuitamente alla nostra newsletter, e ricevi quotidianamente le notizie che la redazione ha preparato per te.

Per favore, inserisci un indirizzo email valido
Per proseguire è necessario accettare la privacy policy