18 aprile 2020

L’uomo che osò volare

Autore: Ester Annetta

Ci sono battaglie che comportano sconfitte senza possibilità di rivincita, mali che possono corrodere anche la forza di un tenace combattente, annientandone la resistenza, fino a sopraffarlo.

A volte, però, si tratta solo di vittorie ottenute contro l’uomo - in quanto essere finito, fatto di carne ed ossa – non anche contro il suo spirito e la sua memoria, che continuano invece ad aleggiare senza confini di spazio e di tempo, legati ad un’eredità di pensieri e parole la cui eco continuerà a risuonare imperitura.

Luis Sepúlveda se n’è andato così, ancora una volta combattendo, come aveva fatto per buona parte della sua esistenza, ma stavolta contro un subdolo ed infame nemico senza volto, che gli ha spento il fiato, quella potente arma con cui per anni, insieme alla sua penna, aveva dato voce a rivolte, denunce, proteste.

Dal nonno Gerardo e dallo zio Pepe aveva ereditato l’impegno politico e l’amore per la letteratura, i due pilastri della sua vita errabonda che l’ha sempre condotto là dove c’era da abbracciare la causa dei deboli e degli umiliati.

Tanto con le armi che col suo genio letterario Sepúlveda ha portato avanti le sue idee, da cittadino e da esule, da uomo libero e da prigioniero.

Ha vissuto, piuttosto che subìto, la storia della sua terra: da militante socialista e guardia personale di Salvator Allende, a soli 23 anni ha pagato col carcere e la tortura il tentativo di difendere il presidente cileno dai golpisti. In quel giorno di “feroce tristezza” – come lui stesso definì in un’intervista quell’11 settembre del 1973, quando la milizia di Pinochet assaltò il palazzo della Moneda di Santiago del Cile - la sua gioventù finì violentemente, dando inizio alla sua vita da adulto e militante della Resistenza.

Passò duri mesi in carcere, in una cella dove a stento poteva stare in piedi, a scontare un ergastolo che grazie all’intercessione instancabile di Amnesty International venne poi tramutato in esilio.

Da tanto furore e da tanto dolore non ha ricavato rabbia, ma ha invece ricevuto il dono di un’acuta sensibilità, con cui ha saputo descrivere e raccontare il travaglio di tutte le genti, ove fossero vittime dell’eterno conflitto tra bene e male.

Da esiliato, ha dipinto con delicatezza e intensità il dramma degli indios Shuar della Foresta Amazzonica spodestati dalla civiltà, facendone il simbolo del contrasto tra due mondi, tra l’ingenuità e la sopraffazione, tessendo la trama di quel gioiello che fu il suo primo romanzo: “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”.

Come difensore dei diritti dei paesi dell’America Latina – l’amata sua terra di cui disse che “non ha altri punti cardinali se non il Nord, là dove confina con l’odio” - si unì alla Brigata Simón Bolívar per combattere nei ranghi del Fronte di liberazione nazionale sandinista contro la dittatura di Somoza Debayle in Nicaragua; come giornalista e regista ha conosciuto l’Europa, abbandonandosi al fascino della letteratura di quei paesi, alimento della sua anima; da ecologista ha accompagnato Greenpeace sulle sue navi, raccontando ancora un’altra storia di conflitto tra sopraffatti e sopraffattori, tra esseri indifesi ed esseri sanguinari, tra balene e uomini.

Sposò due volte la stessa donna: la prima per passione, la seconda per consapevolezza, le stesse due misure con cui ha vissuto l’intera sua vita.

Da quel bagaglio di idee, conoscenze, passioni ed esperienza ha tratto storie di straordinaria bellezza, trasfondendo il suo carattere e il suo pensiero nei suoi personaggi (reali o da favola che fossero), ai quali ha affidato il racconto di lotte, di ideali, di preziose verità.

Ha raccontato le rose del deserto di Atacama, il mondo alla fine del mondo della Patagonia e la delicata storia di Fortunata, la gabbianella cui un gatto insegnò a volare.

Ha continuato a battersi senz’armi affinché il mondo correggesse i suoi errori, invocando il ritorno ad un modello di vita votato al rispetto dell’ambiente e della vita - umana o animale che fosse - incitando a seguire un percorso di coraggio, di difesa dell’esistenza e della libertà, e a coltivare i propri sogni.

Ha saputo così navigare tra più generi letterari, scegliendo di volta in volta quello che più si addiceva al messaggio da trasmettere ed alla sua urgenza, modulandone di conseguenza anche i toni e lo stile.

Ma mai è stato pedante o tracotante: sia che si trattasse di favole con le loro morali, di esplorazioni interiori, di denunce, di esperienze vissute, quello di Sepúlveda è sempre stato un linguaggio leggero, accessibile, ma non per questo meno efficace. Tutt’altro: le sue frasi non scivolano via, ma si assorbono, penetrano in profondità, risuonando amplificate tra mente e cuore anche oltre il tempo della lettura.

I suoi testi hanno quella magia che Antonio José Bolivar Proaño – il vecchio che leggeva romanzi d’amore – aveva imparato ad usare come antidoto contro tutti coloro che corrompevano la verginità della sua Amazzonia: “parlavano con parole così belle che a volte gli facevano dimenticare la barbarie umana”.

Luis Sepúlveda ci ha ora lasciato orfani della sua sapienza e della sua intelligenza.

La sua eredità però resta, ed è molto di più che una collezione di libri nello scaffale di una libreria: è una grandissima lezione, quella che insegna a dover abbattere le frontiere dell’ignoranza, della violenza e dell’arroganza per poter essere uomini liberi.

“Vola solo chi osa farlo”, dice miagolando il gatto Zorba dopo aver lasciato la gabbianella sulla cima del campanile.
Sepúlveda sapeva volare.

 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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