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La cura

Autore: Ester Annetta
Nessun’altra come il 21 settembre è una giornata “da ricordare”: lo è autenticamente, nel vero senso del termine, giacché la memoria – stavolta intesa in senso medico, come ‘funzione psichica e neurale di assimilazione’ - ne è protagonista.

È la Giornata mondiale dell’Alzheimer, l’odiosa e tuttora invitta malattia che condanna le sue vittime ad una vita di ricordi sgretolati, alla mancanza di percezione del presente, al vuoto della propria esistenza, confinate in un limbo dove a tratti affiorano solo memorie andate.

Ma è, grottescamente, anche il morbo dei dimenticati, giacché - al di là dell’impegno dei familiari e delle energie con cui essi si prodigano per conservare la dignità dei loro cari - che per prima tende a scomparire insieme ai ricordi – per questi malati non sono previsti interventi pubblici che offrano servizi e attività in grado di mantenerne il più possibile l’autonomia.

Lo ha evidenziato ancora una volta l’ultimo rapporto dell’ADI (Alzheimer’s Disease International, che raccoglie 105 associazioni di ogni parte del pianeta) proprio in occasione della scorsa Giornata, precisando che l’85% delle persone con demenza nel mondo (che sono almeno 55 milioni, di cui più della metà affetta da Alzheimer) non riceve cure, ossia nessuna forma di assistenza pubblica.

Già, perché la sostanziale differenza è proprio questa: le cure che necessitano a quei malati non sono soltanto di natura medica, quanto umane.
Cura intesa come “prendersi cura”, accudimento, sostegno e anche compagnia. Che sonno le sole cose di cui davvero hanno bisogno.

Se è vero infatti che non c’è ancora una soluzione farmacologica per qualunque forma di demenza senile, è tuttavia possibile migliorare la qualità della vita delle persone che ne sono affette, poiché essa non finisce con la malattia.

Ma attualmente sono soltanto le famiglie, la loro dedizione ed il loro amore a sopperire ad una tale necessità.

Fortunatamente, in assenza di interventi istituzionali, diverse associazioni e realtà umanitarie mettono in campo i loro sforzi, in maniera del tutto indipendente, realizzando virtuose imprese.

Una davvero straordinaria l’ho scoperta proprio mercoledì scorso, rilanciata in occasione della Giornata mondiale dell’Alzheimer.

È “il paese ritrovato”, nome quanto mai appropriato e suggestivo per evocare quale sia lo scopo ultimo del progetto: restituire senso di sé, fiducia e dignità alle persone che per via della malattia li hanno perduti.

Nato su modello del centro Alzheimer olandese “De Hogeweyk di Weesp”, si tratta di un piccolo borgo di circa 15000 metri, realizzato a Monza e gestito dalla Cooperativa Meridiana.

C’è una piazza - al centro - con negozi e altri servizi (parrucchiere, market, bar, teatro, cinema) e, attorno, due palazzine ("Monza" e "Brianza") collegate da un corridoio. Sono composte da otto appartamenti formati da otto camere singole, ciascuna con bagno, oltre ad una cucina ed altri spazi comuni.

C’è un operatore Oss ogni due appartamenti e, durante il giorno, ci sono anche altre figure a disposizione degli ospiti residenti (che sono in tutto 64): il direttore, lo psicologo, il fisioterapista e l’animatore.

Il punto di forza della struttura è che gli “abitanti” del paese (malati di Alzheimer in una fase ancora lieve o moderata, che, pur comportando problematiche comportamentali, non impedisce tuttavia la deambulazione né l’alimentazione autonoma) sono liberi di muoversi. L’obiettivo è difatti quello di favorire il benessere degli ospiti attraverso la loro inclusione e partecipazione, stimolandone e valorizzandone le capacità. E tutto si svolge nella massima sicurezza, poiché sono monitorati a distanza grazie ad un braccialetto che indossano e che consente di localizzarli.

Gli ambienti e gli arredi sono stati studiati secondo un preciso progetto percettivo, basato sui colori, la segnaletica e la forma. Gli oggetti, per esempio, seguono i criteri dell’affordance (“invito all'uso”), hanno cioè qualità fisiche che suggeriscono le azioni appropriate per manipolarli o che permettono di dedurne la funzionalità. Maggiore è l’affordance, più sarà automatico e intuitivo l’utilizzo di un oggetto, strumento o dispositivo.

Anche le attività sono libere e vengono impiegate come modalità alternative per fare fisioterapia: delle locandine affisse presso la proloco del paese propongono una serie di giochi tra cui la persona, supportata dall’operatore, può scegliere; i giochi si svolgono in un luogo specifico, il “centro allenamenti” sotto l’osservazione di un fisioterapista che, guardando l’anziano mentre gioca, è poi in grado di consigliare quale esercizio può essere più indicato per il miglioramento posturale o della deambulazione.

Il criterio guida di tale impostazione è quello secondo cui gli affetti da demenza senile conservano la memoria a lungo termine e, dunque, hanno in mente gli schemi motori passati del fare quotidiano. Perciò, lasciarli liberi di scegliere le attività che preferiscono, fa sì che si sentano adeguati in ciò in cui si riconoscono. Dunque, si “ritrovano”.

La sostanza degli interventi consiste, insomma, nel fornire stimolazioni ambientali e fisiche per tutto il giorno.

Si, probabilmente il paese ricorderà quello finto, perfetto ed acquarellato di Truman Show, così come la condizione dei suoi abitanti quei “Risvegli” raccontati da Oliver Sacks nel libro che documentò gli effetti del L-Dopa sui pazienti resi catatonici dall’encefalite letargica.

E, tuttavia, al di là della suggestione, la bellezza e l’efficacia del progetto del “paese ritrovato” va riconosciuta nella felice intuizione di aver adottato un cambio di impostazione terapeutica, che affida la “rinascita” dei malati di Alzheimer ad un rimedio in fondo semplicissimo: un’azione congiunta di cure ed amorevolezza che possa restituire sicurezza, quotidianità e dignità a chi dalla malattia ha avuto sottratto anche molto altro.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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