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La guerra dei bambini

Autore: Ester Annetta
Se deste ad un bambino di otto anni un foglio bianco ed una scatola di pennarelli chiedendogli di disegnare un angolo di mondo, la sua città o la sua casa, li userebbe tutti i colori, persino il nero, ma solo per tracciare i contorni delle figure.

Perché, a otto anni, il mondo si immagina tinto come l’arcobaleno, limpido e luminoso, con i prati sempre verdi e punteggiati di fiori anche in inverno, il cielo sempre azzurro, con al centro un grande sole dai lunghi raggi splendenti che le nuvole, piccole e vaporose, circondano senza offuscarlo.

A otto anni, il futuro si immagina pieno di scoperte, di infinite possibilità e carico di promesse, custodito in uno scrigno prezioso in cui ancora fantasia e realtà non sono ben distinte.

Perciò, a otto anni, non si dovrebbe vedere la gente fuggire, abbandonare le proprie case portando via lo stretto necessario, licenziarsi dal proprio mondo e dai propri cari col dubbio di non poterli più rivedere.

Non si dovrebbero usare solo il nero della paura ed il rosso del sangue per disegnare la realtà; non si dovrebbero incontrare volti spaventati e rigati di pianto, né si dovrebbero perdere sonno e sogni a causa dell’improvviso suono delle sirene.

Non si dovrebbe essere costretti a vivere sottoterra, al buio e ciechi come le talpe, o in rifugi improvvisati dove, con l’unico giocattolo tratto in salvo, il tempo infinito si inganna inventano giochi di guerra, perché la pace già non la si ricorda più.

A otto anni, quando è appena iniziato il primo quarto della propria esistenza, non si può accettare di morire - come Polina - nel tentativo di fuggire lontano dalla devastazione, crivellata di colpi di mitra nell’abitacolo di un’auto insieme a mamma e papà; e nemmeno si può accettare che - come per Alisa - la morte arrivi a causa di un ordigno lanciato contro una scuola, un luogo che dovrebbe essere sicuro, dove insegnanti coscienziosi continuano ad impegnare i bambini in attività che distolgono dall’orrore, raccontando di un mondo migliore, che conserva i suoi colori anche sotto la cenere e le macerie, della bellezza della vita, della magia dell’alfabeto, dei numeri e della conoscenza che abbatte muri e spalanca confini, dell’allegria dei giochi e di un futuro senza bombe, sirene e carrarmati, tenendo così a bada quella preoccupazione che tuttavia li invade anche se non comprendono: “Maestra, perché la mamma mi ha cucito sulla manica un’etichetta dove ha scritto ‘gruppo 0+’ ed il suo numero di telefono?”

Polina e Alisa: non è affatto una conquista del progresso che in questa guerra, rispetto a quelle passate, i nomi e cognomi dei morti si conoscano in tempo reale invece che alla fine, quando arriva il momento del contrappello che fa il saldo tra periti e sopravvissuti. Ed è un’aberrazione che quelle generalità spesso appartengano a bambini, anime senza macchia, vittime della follia di chi invece un’anima non ce l’ha.

Provateci a spiegarla la guerra ai bambini!

Provate a farglielo capire che non è necessaria, ma c’è chi non può proprio farne a meno!

Provate a dirglielo che con la guerra non si è sicuri in nessun luogo: non a casa, non a scuola, ancor meno al parco o per le strade dove fino a qualche settimana prima giocavano spensierati!

Provate a farglielo accettare ad un bambino che già combatte la sua battaglia contro un male terribile in un reparto di oncologia pediatrica che ora c’è un altro male, fuori, talmente abietto e crudele che si accanisce anche contro le strutture che gli forniscono le cure necessarie a guarire!
Provate a consolarli i tanti bambini che abitano gli orfanotrofi - quei “cataloghi” dove tanti europei, italiani compresi, vanno a scegliere il figlio che non hanno avuto - e che non hanno le braccia di una mamma o di un papà dove correre a rifugiarsi quando l’esplosione di una bomba, troppo vicina, li terrorizza.

Kiev, Leopoli, Mariupol, Kharkiv: la guerra aggiorna la nostra geografia, insegnandoci i nomi di luoghi che ignoravamo; ci appassioniamo alle vicende di questi giorni che, di colpo, più efficacemente della migliore azione sanitaria, hanno cancellato il tema del Covid dalla trattazione dell’agenda quotidiana, trasformando i frequentatori dei social da virologi in altrettanti esperti di geopolitica e strateghi di guerra.

Dalla seduta del nostro divano, seguiamo i notiziari spesso con un’affettata partecipazione, lasciandoci andare, al più, a laconici e standardizzati commenti - “Povera gente!” - di fronte alle immagini dell’esodo dalle citta ucraine, dei ricoverati nei rifugi antiaerei, delle proteste in piazza, mentre, in realtà, siamo forse più preoccupati del possibile arrivo di altri profughi nelle nostre città o del rincaro dei prezzi del gas.

Evidentemente la guerra che non combattiamo è una guerra che non ci riguarda ed il nostro coinvolgimento resta sempre poco sopra la linea di superficie.

“L'avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha precipitato il mondo nell'odio, ci ha condotti a passo d'oca fra le cose più abbiette. Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell'abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformato in cinici, l'avidità ci ha resi duri e cattivi: pensiamo troppo e sentiamo poco”: direste mai che queste parole, tratte dal “Discorso all’Umanità” de “Il grande Dittatore” di Charlie Chaplin siano state scritte più di ottant’anni fa?

Sono ancora queste le cause dei nostri mali, delle nostre guerre, della nostra indifferenza; sono ancora queste le colpe da cui nessuno è immune, soprattutto quando si resta a guardare senza agire, in attesa che altri facciano la prima mossa per valutare se conviene aggregarsi.

Ma del resto, empatizzare con la sofferenza altrui è un esercizio faticoso e difficile, cui spesso si crede di poter ovviare con compassionevoli frasi di circostanza ed una comoda alzata di spalle che legittima la resa all’impotenza.

Invece dovremmo pensare, dovremmo sentire, dovremmo agire, unendoci ad ogni protesta che contesta la guerra come soluzione, qui e ora che si tratta del popolo ucraino, ma più in generale per ogni altra guerra dimenticata che ancora si combatte in luoghi altrettanto dimenticati del mondo.

In nome della libertà.

In nome del rispetto dei popoli.

In nome della dignità.

Soprattutto in nome dei bambini, bersaglio delle bombe, sfollati, fuggitivi. Senza più colori.

Perché mai debbano porre quel drammatico interrogativo cui nessun genitore sa dare risposta: “Mamma, papà, ma cosa c’entro io con la guerra?”
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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