9 maggio 2020

La normalità perduta

Autore: Ester Annetta

Stie aperte da cui si librano polli impazziti che si dividono a raggiera in ogni direzione; larghi viali improvvisamente investiti da una fiumana di persone che sgorgano dalle vie laterali come affluenti che alimentano la piena; parchi e luoghi prima proibiti che vengono presi d’assalto da un esercito senz’ordine allo scoccare dell’ora X del D-day.

Queste erano le immagini ricorrenti con cui veniva vaticinato l’inizio della Fase 2, il giorno di quella nuova Liberazione che avrebbe finalmente segnato l’avvio del ritorno alla normalità dopo una vittoriosa azione di contenimento del nemico.

Ci si aspettava un animato via vai di passi e motori, la fatica di ordinarli e disciplinarli per doverne contenere l’entusiasmo e la vivacità prima ancora che i numeri, un roboante ritorno di suoni ad impossessarsi del silenzio, un disordine generalizzato a far da contrappunto alla quiete ed all’attesa dei mesi passati.

E invece, come sempre accade, è quando ci si prepara all’impatto col peggio che il meglio accade. E sorprende.

Nelle grandi città d’Italia non c’è stata la temuta calca su bus e metro: sono riapparse le auto (troppe, a dire il vero) e persino le bici e i monopattini, ma i mezzi pubblici sono rimasti vuoti, immacolati in quel loro inconsueto lindore imposto dai continui interventi di sanificazione.
Non c’è stato il paventato esodo da Nord a Sud, l’assalto ai treni come in quella notte dell’8 marzo scorso, la stura a quella voglia di tornare a casa che ci si aspettava da centinaia di fuori sede rimasti reclusi in piccoli monolocali o appartamenti condivisi.

E non c’è stata neppure l’euforia che si era immaginata, gli abbracci ai “congiunti” (espressione che ha sollevato non pochi difetti interpretativi ma che in buona sostanza affranca gli affetti dalla pena della lontananza), quella voglia di rompere argini e scavalcare misure che è stata tenuta da parte, in buon ordine, per un tempo che è sembrato infinito.

È forse segno che abbiamo imparato, che la quarantena ci ha assegnato delle regole e dei limiti che abbiamo recepito ed accettato, e saperli osservare è ora diventato il nostro nuovo modo d’intendere e d’agire.

Siamo cambiati, siamo diventati rispettosi e disciplinati, siamo meno egoisti e più attenti agli altri.
Se così fosse, sarebbe la più bella lezione mai appresa da questa pandemia.
Ma la verità è forse un’altra, meno altruista e meno romantica: abbiamo paura.

Per lunghissime settimane ci siamo sintonizzati alle sei d’ogni sera col rosario della Protezione Civile, quella quotidiana litania che ripeteva un elenco ogni volta più lungo di contagi e di vittime; per giorni e giorni abbiamo inseguito tutti i telegiornali di tutte le emittenti, e, per ognuno, non c’era spazio per altro che non fossero notizie o immagini di fatica, di dolore, di bare senza nomi.

Abbiamo lasciato che la nostra speranza si impigliasse nelle reti dell’ostentata dialettica di esperti ed opinionisti, ci siamo fatti convincere dai loro reiterati discorsi e dai loro moniti; abbiamo obbedito senza riserve a quell’appello pressante e continuo, divenuto un’eco senza fine: restate a casa!

Ed eccolo il risultato: siamo ora passati dall’ansia di restare a casa alla paura di dover uscire.
Camminiamo per strada con la sensazione di non toccare il suolo, come astronauti in assenza di gravità; ci sentiamo confusi, ubriachi d’aria e di luce come accade a chi sia stato a lungo al buio o si sia appena rimesso in piedi, convalescente dopo una lunga malattia; continuiamo a rimanere nei paraggi di casa, come cani legati ad una catena solo un po’ più lunga di quella avuta in precedenza, annusando l’aria, osservando tutto quel che c’è intorno, ricatalogando i luoghi.

Siamo guardinghi, celati dietro le nostre mascherine, pronti a deviare percorso o a cambiare marciapiede se intuiamo che chi ci viene incontro non si troverà alla giusta distanza nel passarci accanto.

Rispettiamo le file, una regola che, secondo un ricorrente luogo comune, noi italiani pare siamo stati sempre poco inclini ad osservare: ma lo facciamo per ragioni prossemiche più che per senso di civiltà:
Abbiamo migliorato la nostra igiene fino ad arrivare alla paranoia e abbiamo persino imparato ad autodisciplinarci (smentendo quell’altra comune credenza che fa degli italiani un popolo inaffidabile) ma, ancora una volta, per psicosi più che per metodo.

Abbiamo pure smesso di fare programmi a lungo termine, imparando a non guardare mai troppo più in là del nostro orizzonte determinato da giorni, non più da settimane o mesi e a riconoscere la caducità delle nostre intenzioni per concedere più spazio all’imprevisto, al caso o al fato.

Si, la normalità, quella vera, è ancora ben lontana dal potersi raggiungere. Ma arrivarci non sarà solo questione di allentamento delle misure precauzionali: riguarderà anche la capacità di saper ricollocare il nostro cambiamento nei suoi giusti contorni e di saperlo rileggere con la lente della prudenza più che con quella della paura.

 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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