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La stagione della memoria

Autore: Ester Annetta
I paesi del meridione, quelli minuscoli, fatti di un grappolo di case arrampicate su uno sperone di roccia, hanno memoria più di ogni altro luogo. È quella di chi è invecchiato nello stesso nido che l’ha visto nascere e che non ha mai lasciato; ed è anche quella di chi, invece, costretto dalla necessità o dal bisogno di ampliare orizzonti non solo geografici, è partito per altre destinazioni ed altre opportunità, senza tuttavia soffocare quel richiamo che di tanto in tanto invoca un ritorno.

I primi sono quelli che hanno intessuto i loro giorni nella trama di ritmi sempre uguali a se stessi, scanditi da consegne quotidiane cadenzate al ritmo delle stagioni e delle ore di luce; quelli che hanno contenuto la loro esistenza tra le stesse mura dei loro padri e dei loro nonni, attaccati allo stesso fazzoletto di terra ed agli stessi rituali – semina, raccolta, conserva – senza aver mai visto altro: non il mare, non una grande città, né aver mai esplorato lo spazio più ampio oltre il confine del proprio sguardo. A loro è affidata la custodia delle piccole storie di una comunità, legata solidamente da parentele, “comparesimi” e vicinato, su cui è giunto attutito il riflesso dei grandi accadimenti della Storia: gli anziani la guerra la ricordano, ma non per le bombe ed i saccheggi, quanto per la fame, per l’isolamento, per l’attesa vana di chi dal fronte non ha fatto ritorno.

Gli altri appartengono allo stormo dei migranti che in epoche e con mezzi diversi hanno audacemente azzardato la ricerca di fortuna altrove e a distanze diverse. C’è stato il tempo delle valigie di cartone; dei matrimoni per procura che consentivano a giovani fanciulle di raggiungere mariti pressoché sconosciuti in luoghi di lingua e cultura estranee; di lunghe traversate oceaniche verso l’America, ‘terra promessa’ che più che di luogo fisico era sinonimo di benessere e prosperità. Più tardi c’è stato un tempo che ha ridotto le rotte a paralleli più prossimi, senza mutamenti d’orario, europei ma parimenti stranieri, e, dopo ancora, quello delle destinazioni più prossime, dal Sud verso un Nord che, sebbene contenuto in ambiti nostrani, di distanza ne frapponeva altrettanta per discrimine.

In uno di questi paesi in punta allo stivale italico ho trascorso anch’io la mia infanzia, da lì sono partita, appena diciottenne, verso la capitale che mi ha adottato ed è qui che ho ripreso a tornare da qualche anno, durante quel breve tratto d’estate che ripopola case altrimenti chiuse per il resto dell’anno, risvegliandole dal lungo letargo invernale che le priva di voci e vita. Qui sono rimasti in pochi, il residuo d’una generazione ormai anziana che fa da memoria e guida a chi, come me, fatica a ricomporre le tessere di un passato sfilacciato, che conserva uno sfocato ricordo dei volti ora invecchiati e non riconosce quelli lasciati bambini e ritrovati adulti.

Ogni volta mi rinnamoro di vicoli, scorci e portoni che oggi mi appaiono minuscoli rispetto al ricordo scolpito nei miei ricordi di bambina, e mi volto sorpresa al saluto ed al richiamo di chi, affacciandosi al mio passaggio, mi riconosce e s’informa della mia vita, del mio lavoro, dei miei cari.

La piazza, il sagrato della chiesa, gli slarghi tra le case e quello antistante l’antica torre normanna diventano d’estate palcoscenici illuminati dove le serate si animano tra sagre e feste popolari che ripropongono le tradizioni alla modernità dei tempi.

La Festa dell’Emigrante è una delle più simboliche, un’occasione di ritrovo e di incontro tra vecchio e nuovo, tra chi è rimasto e chi è tornato, ma anche una passerella per chi mostra con fierezza chi è diventato in quell’altrove che ha scambiato con la sua terra, senza tuttavia averla mai rinnegata.

C’è Angelo, che già da bambino lavorava nei campi e ha continuato a restare fedele a quella sua attitudine - ma con formula rivisitata - anche in quella città americana dove vive da più di cinquant’anni. “Faccio il paesaggista: ristrutturo e curo i giardini delle grandi ville” spiega in un miscuglio di dialetto contaminato da inglese, mentre dal mazzo di banconote che estrae dalla tasca ne sfila una sostanziosa con cui paga allo stand il panino con la salsiccia, lasciando il resto in offerta. Ci sono, in quel suo gesto, tutta la fierezza e tutta la generosità di chi sa d’esser ‘diventato’ senza tuttavia aver dimenticato ciò che ‘è stato’, ed è quella sua corposa offerta quasi una moderna rimessa con cui vuol sottolineare il contributo che si è impegnato a mantenere verso le sue origini.

C’è Salvatore, che per venticinque anni ha fatto il muratore in Svizzera, tornandosene poi con un bagaglio di esperienze e nuove tecniche con cui ha proseguito a lavorare anche qui. Si commuove quando racconta di essere stato invitato alla festa di fine cantiere del ricco medico cui ha ristrutturato la villa al mare sulla vicina costa, e di essere stato trattato in quell’occasione “come uno pari a lui e a tutti i suoi amici medici, anche se io ho solo la terza media”.

C’è Francesco, divenuto al Nord chef rinomato, che tuttavia non disdegna – quando è qui – di mettere in piazza enormi pentoloni e riproporre piatti della tradizione contadina azzardando qualche ritocco stellato.

È loro la festa, dei migranti di ogni tempo e di ogni Sud del mondo, che hanno mantenuto l’umiltà anche quando il loro piatto è diventato più ricco, conservando inalterata la semplicità e l’umanità di chi non dimentica la riconoscenza e sa distinguere tra pretesa e necessità.

“L’Italia si è accorciata” sentenzia il sindaco nel suo lessico povero, proprio di chi ha smesso troppo presto di sfogliare pagine di libri e quaderni per rimboccarsi le maniche tra filari di viti e ulivi. Lo dice riferendosi ai tempi in cui non solo servivano settimane per compiere la traversata che portava in America ma servivano almeno due giorni anche solo per arrivare dal Sud a Milano, Torino o Imperia, luoghi deputati all’accoglienza in fabbrica di braccia che al lavoro non si erano mai sottratte. “Quella era vera emigrazione” aggiunge “oggi non è la stessa cosa, perché si può andare e venire con facilità. Chiedetelo a chi partiva e non tornava più, a chi aspettava una volta al mese le lettere “posta aerea” con le righe rosse e blu intorno alla busta, a chi andava a cercare fortuna in Uruguay e Argentina anche se era pure quello il Sud povero dell’America.”

Serve fare memoria, ogni tanto, ricordare il prezzo pagato da chi ha dovuto involarsi lontano dal proprio nido verso terre lontane credute più ospitali.

Soprattutto serve non dimenticare che tutte le migrazioni - di ieri, di oggi e di sempre – parlano di sacrificio, di lontananza e di dolore e che accoglienza e rispetto della dignità umana sono ciò che imprescindibilmente dovrebbe trovare chi si aggrappa alla speranza ultima di trovare nel nuovo approdo anche una vita migliore.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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