25 gennaio 2020

Potrebbe interessarti anche:

Quotidiano
10 febbraio 2024

Buona vita, Ale

Leggi l'articolo
Quotidiano
10 giugno 2023

Dal Dolore all'amore

Leggi l'articolo
Quotidiano
16 settembre 2023

Morti bianche

Leggi l'articolo
Quotidiano
7 ottobre 2023

Tutori della Legge

Leggi l'articolo
25 gennaio 2020

Le lacrime di Ryan

Autore: Ester Annetta
“Non riesco a ricordare un singolo momento della mia vita in cui Mansour, mio padre, abbia avuto parole o comportamenti negativi. Mi diceva sempre di essere positivo, sia durante i periodi brutti che in quelli belli, sia quando rimanevamo bloccati nel traffico che quando non riuscivo a prendere il caffè che volevo. Non voglio parlare delle cose negative, perché so che se mio padre fosse vivo e se qualcun altro fosse morto nell’incidente e fosse proprio lui qui a parlare adesso, non parlerebbe di cose negative. Non lo farò”.

Sono le parole di Ryan Pourjam, 13 anni.

Ha perso il suo papà lo scorso 8 gennaio nell’incidente di Teheran. Era uno dei 176 passeggeri dell’aereo ucraino che l’aviazione civile iraniana ha dichiarato di aver abbattuto “per errore” durante un attacco missilistico contro le basi americane in Iraq. Amissione appositamente confezionata solo dopo che l’Iran – che per settantadue ore aveva negato la verità – ha dovuto arrendersi di fronte all’evidenza di prove schiaccianti.
Si chiamava Mansour il papà di Ryan.

Una settimana dopo l’incidente, ad Ottawa, in Canada, centinaia di studenti, docenti, personale e membri della comunità iraniano-canadese della Carleton University, si sono riuniti nel campus per onorare e celebrare la vita di tutti i morti di quel tragico volo, ed in particolare Fareed Arasteh, uno studente di dottorato e assistente di insegnamento nel dipartimento di biologia, e Mansour Pourjam tecnico dello stesso dipartimento.

Ryan era lì, a ricordare il suo papà.

Le immagini del suo breve elogio funebre sono rimbalzate da un capo all’altro del pianeta, lasciando tutti scossi dal coraggio di quel ragazzino e dalla bellezza delle sue semplici parole.

Ryan è in piedi dietro un podio contornato di microfoni. Spunta appena al di sopra di essi, col suo viso pulito, i capelli un po’ scompigliati, il golfino serio con il colletto sciallato. Sospira profondamente quando la voce sta per spezzarsi in gola, e ruota gli occhi in alto, per impedire che le lacrime abbiano il sopravvento. Deve dimostrare d’essere anche lui come suo padre: forte.

“Se potessi descrivere mio padre con una parola, sarebbe: forte” È lui stesso a dirlo, proseguendo il suo discorso. “Ha vissuto tragedia dopo tragedia, muro dopo muro, strade sbagliate dopo strade sbagliate. Ed è rimasto forte. Era fantastico. Ci volevamo tanto bene. Sono qui in piedi, una settimana dopo questa terribile tragedia e ancora non ci posso credere. Mi sembra di sognare. Ma so che se stessi sognando e mio padre mi svegliasse, mi direbbe che andrà tutto bene. E così sarà”.

Poi ringrazia e china il capo, accennando un inchino verso un pubblico che l’applaude commosso. Torna a sedersi, serio, accennando appena un sorriso in direzione di un signore seduto accanto a lui – un membro accademico di certo – che gli batte una pacca sulle spalle.
Nemmeno allora si rilassa; nemmeno allora si concede di abbandonarsi al pianto. Anzi, è come se, in un muto dialogo con suo padre, gli dicesse: “Ce l’ho fatta! Ho resistito. Sono stato forte proprio come te”.

In quel momento, quel ragazzino così gracile ed occhialuto, sembra un gigante, enorme, quanto enormi appaiono la sua compostezza e la sua dignità davanti al dolore ed al mistero di una morte inattesa.

Se fosse un uomo, sarebbe accettabile: sarebbe l’emblema del coraggio e della volontà di andare avanti nonostante le avversità della vita, il simbolo di chi non si arrende neppure quando il dramma che gli è piovuto addosso sia la tragica conseguenza di un conflitto folle, il riverbero di una violenza che non gli appartiene ma che affronta, tuttavia, con dignità, facendo defluire i suoi pensieri di pace e di perdono come una voce fuori dal coro. Perché in fondo l’accanimento contro ciò che non ha ragione è una sterile ribellione, un atto di protesta che non porta alcun sollievo.

Ma Ryan non è un uomo.

Ha solo 13 anni ed alla sua età dovrebbe piangere e disperarsi per il padre che gli è stato portato via; dovrebbe urlare la sua rabbia contro un’umanità che rende orfani ogni giorno migliaia di bambini come lui, perseverando indefettibilmente in guerre, persecuzioni, forme di sfruttamento che portano fame e povertà.

Ma forse, se ci poniamo davvero in ascolto, allargando cuore e mente, possiamo sentirlo il muto urlo di protesta che la voce di Ryan non ha pronunciato; possiamo leggerlo attraverso le lacrime trattenute che colmano i suoi occhi, possiamo farcene ferire mentre denuncia l’infamità di esseri umani che trattano la guerra come un videogioco, in cui spesso i colpi si sparano senza mira, perché tanto l’importante è colpire nel mucchio.

Non rendiamoci anche noi colpevoli nell’ammirare quella fierezza, perché è una pretesa illegittima che un bambino si sforzi d’essere forte… Anche se per lui questo vuol dire assomigliare al suo papà.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

Potrebbe interessarti anche:

Quotidiano
10 febbraio 2024

Buona vita, Ale

Leggi l'articolo
Quotidiano
10 giugno 2023

Dal Dolore all'amore

Leggi l'articolo
Quotidiano
16 settembre 2023

Morti bianche

Leggi l'articolo
Quotidiano
7 ottobre 2023

Tutori della Legge

Leggi l'articolo
Iscriviti alla newsletter
Fiscal Focus Today

Rimani aggiornato!

Iscriviti gratuitamente alla nostra newsletter, e ricevi quotidianamente le notizie che la redazione ha preparato per te.

Per favore, inserisci un indirizzo email valido
Per proseguire è necessario accettare la privacy policy