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Ad oltre un anno di distanza da quando è diventato una necessità, lo smart working ha mostrato almeno due facce della stessa medaglia: da una parte, quella più scura, la sensazione che la mancanza di una bollatrice equivalga a non avere più orari certi di inizio e fine della giornata lavorativa. Dall’altra, quella positiva, che i benefit aziendali, almeno in massima parte, sono sopravvissuti alla pandemia.
Lo dicono, rispettivamente, il 44 ed il 56% di lavoratori del settore impiegatizio a cui la “Fim Cisl” ha proposto un questionario, con l’idea di capire a fondo la scia di effetti collaterali seminata dall’emergenza sanitaria sul mondo del lavoro.
“La pandemia ha fatto esplodere la modalità di lavoro agile, lo smartworking, un fenomeno relegato fino a un anno fa a poche migliaia di lavoratori e disciplinato da una legge, la 81 del 2017.
Come Fim Cisl riteniamo che, per meglio comprendere questa modalità di lavoro senza infatuazioni ideologiche, bisogna analizzare cosa oggi in realtà rappresenta. Per questo in collaborazione con Adapt e l’Università Cattolica di Milano abbiamo lanciato quella che una volta si chiamava ‘indagine operaia’, una grande campagna di ricerca per conoscere le reali condizioni dei lavoratori metalmeccanici oggi in smartworking, tramite un questionario online, di facile compilazione con il quale poter conoscere quanto e come si lavora in remoto, come si tengono le relazioni con l’azienda e come il tutto incide sulla vita personale e familiare”, commenta in una nota Roberto Benaglia, segretario generale Fim Cisl.
Per l’86% di chi ha completato il questionario, l’azienda ha fornito gli strumenti tecnologici necessari per svolgere le proprie mansioni, tranne ad un 14% costretto a usare i propri. Una dotazione che apriva un altro nervo scoperto: gli strumenti e software di controllo installati dall’azienda, che il 50% pensa di averli, ma più come convinzione personale, mentre il 31% esclude di essere controllato.
Il sondaggio chiedeva anche informazioni sul così detto “diritto alla disconnessione” che le aziende avrebbero dovuto illustrare ai dipendenti: il 61% lamenta di non aver avuto alcuna indicazione, mentre per il 32% l’azienda si è limitata a ricordarne l’esistenza, ma senza aggiungere altro.
Sui benefit, il 56% ammette di non aver perso nulla rispetto al periodo pre-pandemia, compresi i buoni pasto, tolti al contrario al 41% della platea.
Nel complesso, lo smart working piace, con un punteggio che da zero a 10 si assesta da 8 in su. Per il 17% degli interpellato il lavoro agile è stata una piacevole sorpresa, per il 21 permette maggiore concentrazione rispetto all’ufficio e il 14% gli attribuisce il merito di aver permesso una maggiore presenza familiare. Tutti, o comunque la stragrande maggioranza, vorrebbero continuare così.
“La ricerca ci aiuterà a tarare al meglio le nostre politiche contrattuali sul lavoro agile e sarà di aiuto al singolo lavoratore per capire se la modalità di lavoro agile che sta svolgendo sono sostenibili e a norma oppure no – conclude Benaglia - questi mesi sono stati un grande banco di prova, indietro non si torna, la sfida è promuovere e migliorare il lavoro agile aumentando il grado di controllo da parte dei lavoratori e mantenendo nel contempo buone condizioni di vita agile”.