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Morire di lavoro

Autore: Ester Annetta
Aveva ancora il viso fresco di un’adolescente Luana, com’era giusto che fosse a soli 22 anni, nonostante la sveglia presto d’ogni mattina, i turni di lavoro, il suo bimbo di cinque anni che l’aspettava impaziente a casa ogni sera ancora abbastanza sveglio e vivace da esigere un tempo di gioco e di premure esclusivo.

Sognava il mondo del cinema e dello spettacolo, unico avanzo di quella fantasia e di quella ingenuità che responsabilità già troppo grandi l’avevano costretta ad abbandonare, catapultandola in una adultità di fatto non ancora corrispondente ai suoi pochi anni.

Luana D’Orazio se n’è andata in un giorno di maggio, in un modo tragico, reso ancora più atroce dalla mancanza d’un colpevole diretto, d’un qualcuno fisicamente individuabile contro cui rivolgere accuse o urlare di rabbia, come pare ci si sia abituati a fare negli ultimi tempi.

Ad ucciderla non è stato un uomo violento, un amante geloso, un amore tradito.

Non è stato nemmeno il killer invisibile che da oltre un anno cinge d’assedio il mondo intero.

A strapparla alla sua giovinezza ed al suo futuro è stato proprio ciò che un futuro avrebbe dovuto garantirglielo: un lavoro in cui riporre la propria sicurezza e quella del suo bambino, perché non fosse a mancargli nulla di ciò di cui avessero avuto bisogno.

Morire di lavoro.

Per secoli morire di lavoro ha avuto esclusivamente un significato letterale: morire a causa del (troppo) lavoro. È accaduto quando lavorare era ancora ben lungi dall’essere considerato un diritto ed era piuttosto soltanto uno strumento di sopravvivenza, l’infima situazione di sottomissione generata da un abuso o l’assecondamento d’una sopraffazione determinato dalla necessità: tutto ciò, insomma, che un tempo connotava la condizione di schiavitù, quella come tale classificata in una precisa gerarchia sociale, cui competevano le fatiche più massacranti o pericolose, senza cura delle conseguenze, che tanto non ci sarebbe stata differenza alcuna tra la morte d’un individuo trattato come un mulo ed un mulo vero.

Ci sono tuttora, nelle pieghe di certi contesti sociali tutt’altro che arretrati, forme di sfruttamento che di fatto si traducono in nuove forme di schiavitù, senza per ciò dover immaginare vaste piantagioni di cotone: bastano anche solo più modesti campi di pomodori o di ulivi.

Ma non è di questo che qui si tratta.

Morire di lavoro vuol dire anche patire le conseguenze di una trascuratezza, di un controllo mancato, di un difetto di manutenzione o dell’inosservanza di una norma di sicurezza;
significa dipendere da datori di lavoro che, sebbene non si facciano chiamare padroni, non sanno poi distinguere un numero dal nome di un loro operaio;
indica quella sete di lucro, quella ricerca d’espedienti utili al farla in barba ai controlli ed alla legge, quel mirare ad ottenere il massimo spendendo il minimo che sovente s’accompagna all’organizzazione dell’attività d’ogni impresa, indipendentemente dalle sue dimensioni o dal suo fatturato.

Capita allora che proprio a ridosso di una giornata che il lavoro dovrebbe celebrarlo come diritto fondamentale – così come declinato dalla nostra carta costituzionale – Flamur Alsela faccia un volo di cinque metri, verso il basso, però, in un cantiere di Alessandria che sta lavorando alla realizzazione di un nuovo polo logistico per Amazon; e capita pure che Luana resti intrappolata in un macchinario tessile nell’azienda dove lavorava in provincia di Prato e perda la vita così, schiacciata da un ingranaggio da cui soltanto l’intervento dei vigili del fuoco ha potuto sottrarla quand’era però ormai troppo tardi.

Le chiamano “morti bianche”, eppure sono rosse di sangue, grigie di tristezza e nere di lutto.

Sono morti figlie delle contraddizioni, quelle che contrappongono allo sbandieramento del progresso e dell’innovazione, ai proclami sull’efficienza dell’automazione e dello smart working, all’ostentazione del traguardo dell’industria 4.0 le realtà più immediate e concrete di luoghi di lavoro dove la differenza la fanno gli ingranaggi malfunzionanti, i caschi o le corde di sicurezza non forniti o non indossati, i corsi di formazione mai erogati o mai seguiti, i subappalti, i contratti che contemplano mansioni diverse da quelle effettive.

I dati analitici delle denunce di infortunio (nel complesso e con esito mortale) rese disponibili nei giorni scorsi sul sito INAIL tra gli “Open data” evidenziano, relativamente al periodo gennaio-marzo 2021 un incremento del +11,4% degli incidenti con esito mortale a fronte di una diminuzione del -1,7% del totale delle denunce di infortunio sul lavoro rispetto allo stesso periodo del 2020.

Un dato sconfortante, se si pensa che è relativo ad un periodo in cui comunque c’è stato uno stop delle attività lavorative e che perlopiù si è trattato di incidenti che sani ed adeguati controlli ed efficienti misure preventive avrebbero potuto evitare.

L’amara certezza è allora che né Luana né Flamur saranno stati gli ultimi “morti di lavoro”, ed altri nomi si aggiungeranno ai loro, anche lontano da giornate commemorative che valgano da pretesto per attirare l’attenzione sul drammi inaccettabili ancora troppo ricorrenti.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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