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O mythos deloi oti

Autore: Ester Annetta
Ci credevamo esseri eccezionali, superuomini, latori di progresso e di civiltà.


Ci sentivamo padroni del mondo, burattinai in grado di dirigere e cambiare le sorti delle persone, dell’economia, degli Stati.

Forti della nostra arroganza siamo andati avanti dritti verso la realizzazione dei nostri obiettivi e dei nostri interessi, incuranti perlopiù del sacrificio che per altri ciò poteva significare.

Ci siamo illusi d’essere invincibili, d’avere soluzioni pronte o possibili per ogni necessità e per ogni accadimento.

Abbiamo lanciato sfide e abbiamo immaginato scenari futuri credendo di avere in mano tutti gli strumenti per poter continuare a controllare, incanalare, dominare ogni evenienza.

Siamo stati abili sceneggiatori di film in cui abbiamo immaginato scenari apocalittici e situazioni estreme tuttavia sanati e risolti da interventi eroici o da patetiche intercessioni di un deus ex machina.

Abbiamo continuato a discutere, a contrastarci, a boicottarci, a prenderci a sberle e a pugni per affermare le ragioni del più forte;
Abbiamo sostenuto guerre o siamo rimasti indifferenti alla guerre altrui, troppo distanti e troppo ignote;
Abbiamo costruito muri più di quanto non abbiamo abbattuto barriere.
Abbiamo interferito col clima, incuranti dell’affanno provocato ai polmoni quasi collassati del pianeta.
Abbiamo violentato e ferito la Terra.

Ora che sembra arrivata la resa dei conti, ad uno ad uno tutti gli idoli innalzati su templi e sulle colonne sono caduti.
Ogni arroganza, ogni egoismo, ogni prepotenza sono stati silenziati da un nemico tanto potente quanto invisibile e incontrastabile.

Qualcosa di imponderabile e di sottovalutato si è fatto beffe di noi.
Un minuscolo organismo in men che non si dica ha sviluppato una potenza distruttrice imparagonabile a quella di qualunque dispositivo bellico progettato e realizzato dall’uomo.

La natura, il caso, l’imprevisto si sono presi la loro rivincita.

Un paese intero è in ginocchio. Il pianeta intero potrebbe esserlo da un giorno all’altro.
A dimostrazione che tutto quello che mai immaginavamo potesse accadere o che, forti della nostra arroganza, pensavamo non potesse mai raggiungerci, ci ha invece sorpreso, cogliendoci del tutto impreparati.

Abbiamo subito la condanna peggiore che poteva esserci inflitta: quella del vuoto sociale.

In un’epoca in cui avevamo scelto di affidarci a canali di comunicazione sempre più asettici e fittizi, delegando a post, immagini e like i nostri rapporti con gli altri e trasformando i contatti e le amicizie in virtualità, ecco che ci viene imposto di tenerle davvero quelle distanze che erano state finora scelte volontarie e consapevoli.
E il meccanismo che è scattato è stato simile a quello che accade ogni volta che si è di fronte ad una proibizione: sale il desiderio di avere ciò che non possiamo permetterci…come succede nelle diete, nei divieti di sosta, davanti ai cordoli o alla fila dei birilli bianchi e rossi che delimitano un passaggio.

Ciò che avevamo a portata di mano, che avremmo potuto impiegare e sfruttare in ogni momento e che non abbiamo mai apprezzato perché si dava per scontato, rivela tutta la sua necessità e la sua importanza proprio perché, ora, manca.
Ci voleva un virus a risvegliare il nostro bisogno di umanità, di contatto umano, di autenticità e verità delle relazioni.

Ci voleva questo nemico invisibile a farci comprendere quanto tutti gli strumenti intelligenti che abbiamo approntato per tenerci lontano gli uni dagli altri, per “lavorare in remoto”, per praticare “la didattica a distanza” non siamo nemmeno in grado di usarli.

Ci voleva la chiusura delle chiese, dei teatri, dei cinema e dei luoghi di ritrovo per accorgerci di quel vuoto che ci circonda, di quanto – nonostante il nostro crederci bastevoli a noi stessi – non possiamo fare a meno di tutto ciò che serve a nutrire la nostra fame di spiritualità, di cultura, di emozioni, di convivialità.

È forse la pena per contrappasso che ci siamo meritati quella che ci viene comminata nell’Inferno della nostra stessa terra: ora che siamo ovunque e per chiunque i discriminati, i non desiderati, i portatori di male e le cause di instabilità, siamo forse in grado di comprenderlo meglio il dramma di quanti abbiamo relegato dietro muri, filo spinato o rade nei porti; ora che persino il cinese sotto casa chiude il suo negozio per timore d’essere infettato dai suoi clienti italiani, lo comprendiamo cosa vuol dire essere vittima dei pregiudizi; ora che aneliamo all’aria pura ed incontaminata, la riconosciamo la nostra colpa di aver a lungo avvelenato l’aria e la terra con i nostri gas, con le nostre scorie, con le nostre emissioni nocive; ora che abbiamo bisogno di medici e di strutture d’emergenza, ce ne accorgiamo di aver continuato a denigrare l’efficienza di un sistema sanitario per il quale, però, abbiamo investito sempre meno, tagliando, riducendo, privando.

E ora che siamo costretti a starcene a casa, lontani da quei miliardi di impegni con cui abbiamo saturato ogni minuto delle nostre giornate, nell’illusione di tenere a bada le nostre mancanze, le nostre insoddisfazioni, i nostri dissidi interiori, abbiamo forse finalmente l’occasione per fare i conti con noi stessi, per scoprire le carte, per confrontarci con mogli, mariti, figli nei confronti dei quali abbiamo sempre creduto che bastasse mantenerli in una cornice di materialità, di benessere, di concesso per assolvere al nostro compito di cura, ignorando l’infinito spazio della loro interiorità, dei loro altri bisogni non visibili.

Allora forse questo virus, questo nemico potente ed invisibile è un monito, un segnale, un’occasione. ”Ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι...”(o mythos dēloi oti...), ossia “il racconto dimostra che..." era la frase con cui si chiudevano le favole di Esopo e che ne introducevano l’insegnamento, la morale: e l’insegnamento di questa che non è affatto una favola ma che sarà un giorno un racconto che tramanderemo ai nostri nipoti (come fece tanto tempo fa mia nonna parlandomi della terribile “spagnola”), vuol forse essere proprio questo, riscoprire la nostra autenticità e, soprattutto, la nostra fragilità di esseri umani, pretenziosi, spavaldi, impenitenti, ma nient’affatto invincibili.

Perciò, quando l’emergenza sarà passata, quando questo tempo di silenzio, di distanza, di pena sarà archiviato, ricordiamocelo che quegli abbracci ora negati che finalmente potremo tornare a darci non dovranno essere solo la stretta fisica tra i corpi degli scampati, ma la promessa vicendevole di volerci prendere davvero cura l’uno dell’altro, del nostro prossimo più prossimo e dell’umanità intera.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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