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Oggetti d’amore

Autore: Ester Annetta
A distanza di una settimana, è abbastanza probabile che la tragedia di Margno sia già stata archiviata nella mente dei più, collocata nell’elenco delle tante che puntualmente si registrano ogni anno a inizio estate, quando è spesso al caldo che si imputano complicità o concause di azioni efferate.

Sovverrà ancora un rigurgito di indignazione quando l’esito delle autopsie eseguite sui corpi fornirà qualche ulteriore dettaglio sulla dinamica di quel duplice, terribile, assassinio; ma sarà comunque stemperata la rabbia, passato il tempo del dibattito e quello del giudizio popolare, che - accertata senza dubbio alcuno la colpevolezza dell’esecutore del delitto - lo avrà inevitabilmente condannato senza concedergli attenuanti. Il suo suicidio, anzi, sarà stato visto come la giusta esecuzione che il reo avrà voluto autoinfliggersi, consapevole che la condanna di un tribunale terreno non sarebbe stata altrettanto adeguata ed avrebbe anzi lasciato aperto un varco troppo grande attraverso cui il rimorso si sarebbe insinuato, per tormentarlo per il resto dei suoi giorni.

Ciò che sarà rimasto di questo dramma d’inizio estate sarà comunque ricondotto all’essenzialità ed alla crudezza del fatto in sé: un padre che, dopo aver trascorso una bellissima giornata in montagna con i suoi figli, immortalandone e postandone sorrisi e momenti felici, li ha poi uccisi con le sue stesse mani, consegnando alla sua quasi ex moglie una funesta profezia: “Non li rivedrai mai più”.

Ma è invece oltre che bisogna andare, non limitarsi ancora una volta al giudizio sull’asperità dei fatti senza indagarne le ragioni, che – si badi bene – è necessario vadano ben oltre quello che, con inadeguata sbrigatività, qualcuno ha voluto individuare nella disperazione di un uomo incapace d’accettare la separazione dalla moglie, finendo in tal modo quasi per giustificare il suo gesto.

C’è molto di più, e bisognerebbe avere il coraggio e l’obiettività di riconoscerlo e d’affermarlo, lontano da ogni ipocrisia e da ogni giudizio pacato in nome di non si sa quale contorta visione delle relazioni di genere.

C’è infatti tutta la brutalità, la prepotenza e l’egoismo dell’uomo che crede di avere in mano le sorti della sua donna e dei suoi figli, di poterli considerare una sua proprietà e di poterne pertanto disporre anche la vita o la morte.

C’è la violenza di un marito che usa quei figli come strumento di ricatto contro una moglie che ha deciso per la propria indipendenza, per indurla a rivedere le sue posizioni, per costringerla a rimanere in una dimensione da cui pretenderebbe d’evadere.

C’è la perversione di un padre che ostenta in foto e post la gioia di un giorno sereno trascorso vicino ai suoi figli, per non esitare subito dopo ad immolarli alla propria causa, concependo la più crudele delle vendette nei confronti di una madre da cui non accetta le distanze; una vendetta di cui nemmeno potrà godere, perché – forse per un barlume di coscienza - si è tolto a sua volta la vita prima di poter vedere lo strazio di quella madre che si contorce a terra dal dolore, gridando che i suoi figli non si svegliano più.

E c’è anche il raccapricciante commento di una platea che vorrebbe meschinamente stemperare i toni del giudizio su quella tragedia, fornendo attenuanti che finiscono per essere piuttosto una avvaloramento di condotte che – lasciando da parte ogni eufemismo – meritano d’essere chiamate con il loro nome: sessismo e misoginia.

In calce all’articolo di un giornalista che, al pari di altri, ha voluto ricondurre il gesto di quell’uomo alla disperazione causata dalla separazione, ho trovato l’ignobile commento di un lettore, espresso in questi termini: “Quando lo capiranno le donne che non devono esasperare gli uomini?”

È questo, allora, che fa orrore più di tutto: la conferma di quanto sia ancora persistente la visione della donna considerata come un oggetto, uno strumento votato a compiacere l’uomo, un essere che va privato d’autonomia e volontà e che, pertanto, ove si discosti dalla condotta che da lei si pretende, legittimi azioni che, a loro volta, possono perfino arrivare ad impiegare come oggetti altri esseri umani che le appartengono: i figli.

In mancanza di una violenza fisica diretta, ecco che i figli diventano il ricatto più grande per far restare, annientare, sottomettere una donna e poco importa che siano altri esseri umani, sangue del proprio sangue: l’odio procurato dall’affronto d’esser stato lasciato non consente di guardarli in faccia e, se lo fa, è nel momento in cui si aspetta che smettano di respirare mentre si dibattono sotto la morsa delle mani strette attorno al loro collo.

Un padre che arrivi a tanto non è esasperato: è semplicemente colpevole, è semplicemente un assassino.

Ed altrettanto colpevoli - sebbene, ahinoi, non sottoponibili ad altro giudizio che quello morale – sono tutti coloro che sventolano il vessillo dell’orgoglio e della superiorità del genere maschile per legittimare l’abominio.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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