Ciclicamente la questione ritorna.
Sembra quasi la conferma di una delle tante forme di cultura umana e sociale che – come sostenne Giovanbattista Vico alla fine del ‘600 – sono destinate a ripresentarsi costantemente. Pur nel cambiamento delle situazioni e dei comportamenti storici, l'uomo resta sempre uguale a se stesso e, dunque, le ragioni dei fatti e della storia non possono che basarsi su fondamenta ideali ed eterne che si ripetono.
Il riproporsi della controversia sulla liceità del Crocifisso in classe è, allora, forse paragonabile ad uno di questi ricorsi storici.
Se ne discute da anni. Una sua datazione precisa, anzi, potrebbe essere collocata nel 1984, anno in cui tra la Repubblica italiana e la Santa Sede fu firmato un accordo - detto di Villa Madama - con cui venne abrogato il principio della “religione di Stato” contemplato dall’art. 1 dei c.d. Patti Lateranensi, il Concordato dell’11 febbraio 1929 con il quale erano stati risolti gli attriti tra lo Stato italiano (che allora era una monarchia) e la Chiesa cattolica, sorti a seguito della presa di Roma nel 1870, storicamente noti come “questione romana”.
In virtù del detto accordo venne perciò superato anche il principio che considerava l’insegnamento della religione cattolica come “fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica”, imponendolo come obbligatorio (salvo dispensa) nelle scuole italiane. L’insegnamento della religione cattolica continuava, dunque, ad essere assicurato come materia ordinaria nelle scuole pubbliche (non universitarie) di ogni ordine e grado, ma veniva tuttavia garantito agli studenti il diritto di scegliere se avvalersene o meno.
Tutto ciò si poneva in linea con il principio della laicità dello Stato che, sebbene non formalmente espresso, è ricavabile in particolare dal dettato dell’art. 8 della Costituzione, che, al comma 1, stabilisce che “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge” offrendo perciò eguale tutela al “sentimento religioso”, indipendentemente dalla confessione che lo esprime (la nostra Costituzione, infatti, sancisce il principio del pluralismo religioso, in contrapposizione al dettato dell’art. 1 dello Statuto Albertino che proclamava la sola religione cattolica come religione di Stato, c.d. principio del confessionalismo di Stato).
Da ciò, dunque, il sortire della bagarre sulla legittimità di esporre il Crocifisso nei luoghi pubblici (le scuole in particolare), in contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza dei cittadini, di libertà di religione e di laicità dello Stato.
Sull'argomento, l'ultima rilevante pronuncia giudiziaria risale al 2011, quando la Grande Camera della Corte europea per i diritti dell'uomo, accogliendo un ricorso dell'Italia, ha definitivamente ritenuto legittima l'esposizione del crocifisso, ribaltando una contraria sentenza della stessa Corte europea di due anni prima.
La vicenda oggetto della pronuncia risale al 2002; il Consiglio di Istituto di una scuola di Abano Terme aveva respinto il ricorso della famiglia di due alunne che aveva chiesto la rimozione del Crocifisso dagli ambienti scolastici.
Contro la decisione del Consiglio d’Istituto la madre delle due alunne era ricorsa al TAR del Veneto, sostenendo, appunto, la violazione del principio supremo di laicità dello Stato, poiché l’esposizione del Crocifisso avrebbe violato la “parità che deve essere garantita a tutte le religioni e a tutte le credenze, anche a-religiose”.
Il Ministero dell'Istruzione, costituitosi nel giudizio, aveva sottolineato che l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è prevista da disposizioni regolamentari contenute in due regi decreti: il n. 965 del 1924 e il n. 1297 del 1928, che, benché datati, erano da considerarsi ancora in vigore, come tra l’altro confermato dal parere reso dal Consiglio di Stato n. 63 del 1988.
Conseguentemente, il TAR Veneto aveva a sua volta concluso a favore della vigenza dei predetti regolamenti, rimettendo tuttavia gli atti alla Corte costituzionale, la quale aveva però dichiarato inammissibile il ricorso, motivando che le norme sull'esposizione del crocifisso a scuola
“sono norme regolamentari, prive di forza di legge, e su di esse non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale”.
Gli atti erano dunque tornati al TAR che, nel 2005, aveva infine emesso la propria pronuncia respingendo il ricorso della madre delle due alunne, sostenendo che
“il crocifisso, inteso come simbolo di una particolare storia, cultura ed identità nazionale (...), oltre che espressione di alcuni principi laici della comunità (...), può essere legittimamente collocato nelle aule della scuola pubblica, in quanto non solo non contrastante ma addirittura affermativo e confermativo del principio della laicità dello Stato”.
Il successivo appello proposto al Consiglio di Stato si era concluso con lo stesso esito e con la conferma della
“funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni” del Crocifisso, che non doveva perciò essere visto solo come oggetto di culto, bensì come un simbolo idoneo ad esprimere l'elevato fondamento dei valori civili (tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, riguardo alla sua libertà, solidarietà umana, rifiuto di ogni discriminazione),
“che sono poi i valori che delineano la laicità nell'attuale ordinamento dello Stato”.
Non paga, la madre delle due alunne si era infine rivolta alla Corte europea per i diritti dell'uomo che, pronunciandosi il 3 novembre 2009, aveva infine ammesso che il Crocifisso appeso nelle aule scolastiche costituiva una violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni.
Su ricorso del governo italiano la Grande Camera, infine, ribaltando il verdetto della Corte europea, il 18 marzo 2011 aveva infine riconosciuto che l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche e negli altri luoghi pubblici non potesse essere considerato un elemento di “indottrinamento” e non violasse, pertanto, i diritti umani.
Ciò che viene da considerare rileggendo questa vicenda - e ancor più in generale - è come sempre più spesso accada che alcune questioni si fondino su interpretazioni rigorose e ormai decontestualizzate di principi e norme, scadendo nel paradosso di apparire pretestuose.
È più che evidente, infatti, che in uno Stato come il nostro che ha sottoscritto un cospicuo numero di intese con confessioni diverse dalla cattolica, approvandole con legge, che concede di edificare in ogni dove edifici d’ogni culto, che offre sostegno e patrocinio a manifestazioni culturali fondate su altre espressioni religiose, l’esposizione di un Crocifisso non può verosimilmente assumere alcuna valenza impositiva né tanto meno discriminatoria rispetto alle altre confessioni, rivestendo, piuttosto un valore identitario, spirituale e storico, alla stessa stregua di una bandiera o di un monumento ai caduti di guerra.
E, un simbolo identitario, lungi dal dover essere etichettato come “escludente”, va, viceversa rispettato, come altrettanto rispettosamente un cattolico si pone nei confronti delle regole e dei simboli di altre religioni ogni qualvolta “ne varchi i territori”, togliendosi ad esempio le scarpe e coprendosi capo e vesti entrando in una moschea o adeguandosi al riposo dello shabbat.
La libertà ed il rispetto possono dirsi veri solo se si decontaminano dai giudizi e dai pregiudizi e se non pretendono sacrificio, nemmeno quello altrui.
I simboli sono, allora, simboli per tutti. E rappresentano tutti.
Nota:
Natalia Ginzburg, nata Levi – ebrea e atea – pubblicò sul “L’Unità" del 22 marzo 1988 un articolo che, a distanza di trent’anni, appare quanto mai attuale ed emblematico. Se ne riporta uno stralcio:
Quella croce rappresenta tutti
Dicono che il crocifisso deve essere tolto dalle aule della Scuola. II nostro è uno stato laico che non ha diritto di imporre che nelle aule ci sia il crocifisso... (…)
II crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. È l'immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l'idea dell'uguaglianza fra gli uomini fino allora assente. (…) È muto e silenzioso. C'è stato sempre. Per i cattolici, è un simbolo religioso. Per altri, può essere niente, una parte del muro. E infine per qualcuno, per una minoranza minima, o magari per un solo bambino, può essere qualcosa di particolare, che suscita pensieri contrastanti. I diritti delle minoranze vanno rispettati.
Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei. Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato, e non è forse morto nel martirio, come e accaduto a milioni di ebrei nei lager? (…) II crocifisso fa parte della storia del mondo. Per i cattolici, Gesù Cristo è il Figlio di Dio. Per i non cattolici, può essere semplicemente l'immagine di uno che è stato venduto, tradito, martoriato ed è morto sulla croce per amore di Dio e del prossimo. Chi è ateo, cancella l'idea di Dio ma conserva l'idea del prossimo. Si dirà che molti sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il prossimo, per le generazioni future, e di loro sui muri delle scuole non c'è immagine. È vero, ma il crocifisso li rappresenta tutti (…) Perché prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli. (…)
Gesù Cristo ha portato la croce. A tutti noi è accaduto o accade di portare sulle spalle il peso di una grande sventura (...) Tutti, cattolici e laici, portiamo o porteremo il peso di una sventura, (…). Questo dice il crocifisso. Lo dice a tutti, mica solo ai cattolici.