29 febbraio 2020

Paradossi da virus

Autore: Ester Annetta
Manca solo una processione solenne per portare il corpo di S. Carlo per le vie della città al fine di stornare la minaccia del contagio, come accadde l’11 giugno 1630. Per il resto, il racconto manzoniano della peste riportato ne “I Promessi Sposi” sembra descrivere, a distanza di secoli e con straordinaria attualità, tutto ciò che sta accadendo in questi giorni man mano che l’allarme per il diffondersi del coronavirus cresce.

C’è tutto: la certezza che la colpa del contagio sia degli stranieri e che, pertanto, siano pericolosi; la ricerca incessante e ormai inutile del “paziente zero” ed il crescente furore popolare contro i presunti “untori”; la difficoltà delle autorità di destreggiarsi tra le tante necessità, e i loro scontri, che non passano affatto in second’ordine ma, anzi, traggono dalla contingenza del momento nuovo alimento per rinnovati contrasti; il disprezzo per gli esperti e la supponenza di chi si improvvisa esperto; le voci, le dicerie, le fake-news incontrollate; la “medicina popolare” che promuove i rimedi più assurdi; l’assalto ai supermercati e la razzia dei beni di prima necessità come se ci si apprestasse ad un’imminente carestia; l’emergenza sanitaria che qualcuno immagina come già proiettata alla necessità di dover “ampliare il lazzaretto” con l’allestimento di tende da campo (visto che, difficilmente, saremmo in grado di eguagliare i cinesi costruendo un ospedale in soli dieci giorni!).

Ma ci sono, inevitabilmente, anche i paradossi che, per fortuna, molto spesso fanno persino sorridere, concedendo una tregua al crescente allarmismo e rilanciando la necessità di un maggior buon senso.

E così, assistiamo a trasmissioni nazional-popolari dove una discinta conduttrice - che ormai la fa da signora dei pomeriggi italiani, diventando all’occorrenza madre, sorella, amica e confidente dei propri ospiti - interpella il Presidente del Consiglio col suo affabile savoir faire, chiamandolo confidenzialmente “Giuseppe” e dandogli del tu (come se avessero giocato insieme ad acchiapparello da bambini) mentre gli domanda: “ma insomma, facce capì: possiamo uscire? Possiamo partire? O dobbiamo rimanere tappati in casa?”. Lo stesso Presidente, un tantino imbarazzato, nel replicare all’intervista che pare quasi diventata un comico siparietto, cede all’uso dello stesso pronome, a differenza della ricercatrice dello Spallanzani che, interpellata dalla stessa conduttrice subito dopo, ne ignora l’approccio confidenziale, ribattendo con un ostinato e distaccato “lei” all’insistente “tu”, riuscendo infine a spuntarla.

Capita persino che il sindaco di un piccolo Comune del Sud che conta poco più di mille anime imponga con un’ordinanza il divieto d’accesso al suo territorio a chiunque sia transitato o abbia sostato nelle Regioni Veneto e Lombardia, avvertendo che eventuali trasgressori rischieranno fino a tre mesi di carcere. Viste le ovvie reazioni di sconcerto innescate dal suo provvedimento, corre poi ai ripari rettificandolo parzialmente. Ma, intanto, rintracciato telefonicamente da una radio locale del Nord che chiede lumi, manda avanti a rispondere la moglie, che candidamente sostiene: “mio marito ha la febbre e sta dormendo […] il medico dice che è un raffreddore. Non so se mio marito ha il coronavirus, non siamo stati in ospedale”.

C’è poi un treno che resta fermo in una stazione per diverse ore per accertamenti medico-sanitari, perché un diligente passeggero, interpretando alla lettera la celia di un vicino di posto buontempone che al telefono diceva ad un amico di aver contratto il temuto virus, lancia l’allarme e fa scattare le misure di sicurezza anti contagio.

C’è pure l’eroe metropolitano, il dj-attore-conduttore che, grazie alla sua notorietà, fa sapere di aver preso a schiaffi due ragazzi che inveivano contro un anziano cinese; ma c’è pure il cliente del supermercato che, forse nel timore di non riuscire a riempire il proprio carrello nella corsa all’accaparramento dei viveri, sferra un pugno solenne in pieno volto ad altro avventore che parrebbe cinese e che invece si difende gridando “sono filippino!”.

C’è, ancora, un gruppo di turisti appena atterrati alle Mauritius che si vede negare il permesso di scendere dall’aereo perché proveniente dall’infetta Italia ed è costretto, perciò, a rimpatriare, mentre tutti gli altri passeggeri dello stesso volo – pur avendo respirato la stessa aria e condiviso lo stesso spazio vitale (e, potenzialmente, lo stesso virus) – superano agevolmente ogni controllo e restano in vacanza.

C’è poi l’ironia dei social, che, sdrammatizzando per quanto possibile l’emergenza, tentano di ridimensionare la drastica portata delle reazioni ormai innescate con vignette ed aforismi che, si spera, possano avere l’effetto non solo di far ridere ma di far riflettere sulla reale portata di un allarme che rischia di diventare maggiore più per il troppo dissertare e per la psicosi che l’accompagna che non per un reale pericolo.

Ci sono infine esponenti e leader di partito che, anche in questa situazione, non cessano di celebrare le loro novene di polemiche ed attacchi, con l’ardita pretesa di ammonire chiunque altro (di partito omologo o contrario), sebbene impegnato h24 per fronteggiare l’emergenza, abbia da “perder tempo” nel replicare a critiche ed accuse. La sensazione è che il disappunto discenda più da una mancanza di protagonismo che dalla constatazione di una effettiva inefficienza.

Tutto questo, però, fa un po’ meno ridere.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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