9 gennaio 2021

Poi vediamo…

Autore: Ester Annetta

È la frase con cui di solito rispondono i miei figli ad una mia richiesta quando vogliono prendere tempo; anzi, il più delle volte è l’anticipazione garbata e meno diretta di un NO.

Più genericamente, “Poi vediamo…” è a formula diplomatica con cui si autolegittima una dilazione, lo strumento inattaccabile che consente di rinviare una decisione, una scelta, una qualunque forma di risoluzione.

Inattaccabile, certo, perché non ha la durezza di un diniego né la certezza di un assenso: è una zona franca, un limbo che lascia sospesi e al quale non si può concedere altra replica che non sia la paziente attesa.

Mai come di questi tempi “Poi vediamo…” sembra essere diventata una formula di dominio assoluto: non regola solo le nostre scelte individuali, i nostri progetti ed i nostri programmi, minati dall’incertezza d’una lunga contingenza che non offre soluzioni sicure e definitive; sembra, anzi, essere la regola secondo cui, in molti frangenti, agiscono anche i nostri governanti, col risultato finale di infirmare quel senso di fiducia che sarebbe auspicabile attendersi dai cittadini e che, invece, già in tempi “normali” faticano ad ottenere.

Per insita natura, probabilmente, siamo un popolo strutturato sulla diffidenza e sull’incapacità di accontentarci, portati sovente alla critica, alla censura ed alla contestazione qualunque sia la scelta o l’operato che ci si proponga. Del resto, se siamo uno degli Stati con più bandiere e partiti nel suo orizzonte politico una ragione ci sarà e, di certo, la poca risolutezza delle nostre istituzioni non può che favorire la tendenza ad agitarci come le canne al vento di deleddiana memoria.

Ma, non essendo questa le sede adatta a discorsi di portata sin troppo vasta, mi si conceda tuttavia di esprimere una personalissima opinione riguardo alla linea d’azione che i recentissimi provvedimenti disposti dal Governo sembrano evidenziare: “Poi vediamo…” sembra essere diventato il criterio attraverso cui si disegnano soluzioni arrancate e poco convincenti, denotando oltre ad una totale capacità progettuale anche la seria difficoltà con cui si tenta di far fronte ai dati mai abbastanza chiari (rectius: mai abbastanza noti) della pandemia.

L’ultimo DPCM, varato come ormai di consueto col favore delle tenebre, né è un chiaro esempio. Al di là della danza di colori che continua a cambiare tinta alle Zone con una fantasia pollockiana, la vicenda della riapertura delle scuole superiori è quella che meglio rappresenta quella tattica temporeggiatrice tipica di chi aspetta forse che siano gli eventi a decidere per suo conto.

Il 7 gennaio si sarebbe dovuti tornare in classe: un proclama esteso senza tema di smentita già prima che cominciassero le vacanze di Natale, confidando forse nel miracolo del Bambinello che, senza por mano ad accordi ed interventi, avrebbe risolto la questione dei trasporti, della ventilazione delle aule, degli spazi delle stesse.

A gennaio si riparte! Non c’è dubbio. I ragazzi hanno già sofferto troppo per la mancanza di contatti sociali, di relazioni con i compagni, di spazi di discussione e d’apprendimento reali che la didattica a distanza non può avere la pretesa di sostituire.

Già a Capodanno, però, s’intravedevano i primi tentennamenti ed il rifiuto netto di alcuni presidenti di regione che, più ragionevolmente di alcuni loro diretti superiori, evidenziavano i rischi d’un tale azzardo, in assenza di interventi che, ancora una volta, non erano stati approntati per garantire un rientro in sicurezza.
E dunque, l’altra notte, dopo tanto discutere, dopo tanto confliggere, la montagna ha finalmente partorito il suo topolino: non si rientrerà a scuola il 7 gennaio ma l’11.

“Poi vediamo…”. E’ così che suona questa dilazione: cosa può cambiare in tre giorni che non sia cambiato in tutti i mesi già trascorsi? E quanto può fare la differenza un rientro in presenza al 50% piuttosto che al 75%,come s’era detto in un primo momento?

Semplicemente, ancora una volta, è mancato il coraggio di dire chiaramente, senza parafrasi, senza eufemismi, senza mezzi termini che non ci sono assolutamente le condizioni per far ripartire le lezioni in presenza, che la favoletta raccontata da un Ministro che si ostina a ribattere che le aule non sono focolai non è più credibile e che, se anche fosse vera, è comunque tutto ciò che fa da contorno alla stasi in aula – il tragitto per arrivarci, lo spazio inadatto dei luoghi condivisi – a non essere sicuro, a non garantire parametri di salubrità tali da escludere il rischio del contagio.

E allora prendiamo tempo; andiamo avanti a salti e balzelli, di rimando in rimando o prospettando soluzioni artificiose – quali orari improponibili che spezzano le mattinate e rubano i pomeriggi senza tener conto della mancanza di servizi mensa né (che è peggio) del sacrificio di tempo e impegno (perlopiù improficuo) che verrebbe così richiesto ai ragazzi - fino ad arrivare all’estate, agli esami di Stato, al “tutti promossi” che inevitabilmente sarà la regola anche di quest’anno scolastico.

Poi ci sarà di nuovo l’estate per lavorare e preparare ciò che serve per la ripresa, sempre che, a settembre, non si scopra di nuovo che nulla è stato fatto.

Ma per fortuna, stavolta c’è di mezzo un vaccino (purché risulti efficace anche sulla variante nostrana B117) che, forse, sarà l’evento che favorirà il temporeggiamento, la soluzione spontanea che sanerà quella che non si è stati in grado di trovare.

E se così non fosse… poi vediamo!

 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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