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Quando s’apre un portone

Autore: Ester Annetta
Ci si abitua a tutto.

È forse questa, su ogni altra, la connotazione che ha conferito al genere umano la capacità di far fronte ai cambiamenti, sopravvivendo all’estinzione. Gli studi antropologici e le evidenze scientifiche hanno rilevato quanto gli esseri umani siano per eccellenza creature adattabili, in grado di trasformarsi in ragione della diversità degli ambienti e delle loro caratteristiche, sia morfologiche che climatiche.

Ma non è solo in questo contesto generale, socio-antropologico, che tale caratteristica si evidenzia; con la stessa efficacia, la si osserva anche in dimensioni meno ampie, temporalmente più ristrette, ed in situazioni più specifiche, fino ad arrivare alla quotidianità: ci si adatta agli eventi che stravolgono il ritmo delle singole esistenze – un lavoro nuovo, la nascita d’un figlio, una perdita – imparando così a riorganizzarsi, rimodulando la scansione della propria vita, dimostrando di accogliere con non troppo attrito le novità.

Una tale abilità di adattamento spesso si coniuga con un’altra caratteristica: la resilienza, indicandosi con tale espressione – mutuata dal mondo della fisica – la capacità, anch’essa tipica degli esseri umani, di affrontare e superare eventi traumatici o periodi di difficoltà mettendo in campo energie insospettate, grazie alle quali spesso l’imprevisto, il dramma, la perdita si trasformano in nuove opportunità.

Può forse sembrare una pretesa ardita, ma se si riesce a prendere le dovute distanze dagli aspetti tragici della pandemia – i morti, le chiusure, i posti i lavoro perduti – anche in essa si può trovare una conferma (di certo non salvifica né risolutiva, ma tuttavia positiva) della premessa appena fatta.

Partiamo da un dato di fatto: è passato oltre un anno dal primo lockdown, e sono scomparsi quasi un milione di posti di lavoro; per ogni giorno di “zona rossa”, sono stati persi milioni di euro di fatturato; le imprese che hanno chiuso definitivamente i battenti, incapaci di far fronte a chiusure più o meno temporanee, sono anch’esse migliaia. È il quadro tracciato, da ultimo, da Confesercenti, che recentemente ha persino lanciato una petizione con la quale si fa promotrice dell’iniziativa di chiedere al governo un “Decreto Imprese" che assegni sostegni adeguati e credito immediato alle imprese, per consentire una ripartenza effettiva ed in sicurezza, frenando l’emorragia di disoccupazione e il conseguente incremento della povertà.

Una richiesta giusta e senz’altro sensata, al pari delle innumerevoli altre che si sono mosse nella stessa direzione.
Tuttavia – ed è qui che torna il discorso sull’adattabilità e sulla resilienza – gli italiani (ma ciò può valere anche per altre popolazioni) non sono un popolo che si rassegna ad un’attesa sterile e defatigante; viceversa mettono in campo energie nuove, reinventandosi e inventando modalità diverse attraverso cui riguadagnare spazi di lavoro e di produttività.

E, dunque, un po’com’è stato, banalmente, per le mascherine – che da semplici (ed inizialmente introvabili) dispositivi di protezione, sono state trasformate, da imprenditori che ne hanno colto la potenziale (e lecita) redditività, in veri e propri accessori d’abbigliamento, e perciò riproposte in numerose varianti - allo stesso modo si è assistito alla nascita di molte attività e di figure professionali nuove, definite “a prova di crisi”. In particolare si tratta di quelle di vendita di servizi di marketing, l’apertura di negozi online, la vendita di corsi online, la creazione e la gestione di siti web e profili social. Parimenti, c’è stata la riconversione di attività esistenti, che sono state riabbigliate con vesti nuove, com’è accaduto per la traduzione di molti esercizi di ristorazione o di vendita di generi alimentari nella formula della consegna a domicilio.

In un certo senso la pandemia ha dunque indotto o costretto molti a ripiegare su una flessibilità che magari in passato si era anche preventivata, desiderata, agognata ma che, il più delle volte - in nome della sicurezza, della pigrizia o della paura – era stata messa da parte o rimandata.

Insomma, in qualche misura, l’emergenza per alcuni può aver avuto una lettura positiva, divenendo un’opportunità, il “portone che si è aperto quando s’è chiusa una porta”.

Nondimeno, vanno apprezzati il coraggio e l’intraprendenza di quanti, proprio in questo tempo di incertezza, hanno avviato ex novo un’attività, rischiando il tutto per tutto, mossi a volte da intenti non manifesti e non dichiarati e tuttavia ben più nobili della mera resa economica.

Mi piace in proposito riportare un episodio che ritengo significativo.

Lo scorso sabato, al termine di una passeggiata in Prati, per una delle consuete vie dello shopping romano ripopolatesi dopo il fermo “rosso” pasquale, mi è capitato di passare davanti ad un grosso forno/negozio, di quelli che tengono in bella vista forme di pane d’ogni tipo, pizze multigusto e multicolore e dolci vari; sul marciapiede davanti, c’era anche una larga pedana con tavolini accatastati ed ombrelloni chiusi, essendo ormai passate le 18.00.

La fragranza che si diffondeva era tuttavia ancora talmente invitante che sono entrata, domandandomi tra l’altro come mai non avessi mai notato quel posto prima d’allora, le altre volte in cui avevo percorso quella stessa strada. Ho scelto una forma di pane e delle pizzette; la ragazza che mi ha servito ha tenuto a precisarmi che avrei pagato solo queste ultime, mentre il pane era un omaggio del negozio. Non ha precisato quale fosse il motivo del dono ma, vista l’ora tarda, ho creduto che fosse una sorta di usanza anti-spreco.

Ho ringraziato e mi sono dunque recata alla cassa, dove c’era un uomo sulla quarantina – con tutta evidenza il titolare dell’esercizio - che ho nuovamente ringraziato. Lui allora, sorridente e contento, mi ha detto che il negozio era stato appena inaugurato e quello era il primo giorno d’apertura.

Mi è venuto spontaneo fargli i complimenti, sottolineando che era ammirevole il coraggio che aveva avuto nell’aver voluto avviare un’attività nonostante le difficoltà del periodo.

Ed è stato allora che quell’uomo, guardandomi serio e raddrizzando le spalle ad assumere una posa quasi impettita, mi ha detto una cosa bellissima: “più che coraggioso, mi sento orgoglioso di aver dato lavoro a dieci persone”.

Chapeau!

Credo che meriti fortuna quel giovane uomo coraggioso, che mi piace pensare abbia metaforicamente voluto legare il valore del primo alimento, il pane, al primo diritto dell’uomo: il lavoro.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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