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Autore: Ester Annetta
Sono già circa sessanta dall’inizio dell’anno, ma sono evidentemente destinati ad aumentare.

E non si tratta solo di numeri, come perlopiù si è portati a considerarli quando – forse troppo perentoriamente – trascendiamo la loro singola identità finendo per assimilarli e confonderli con il loro reato e con la loro pena.

Persuasi di tanto, dimentichiamo perciò che anche loro, i detenuti, sono anime e non solo corpi - come qualcuno ha già scritto – e perciò, al di là di ogni loro colpevolezza, hanno diritto ad essere trattati come esseri umani.

Ce lo ha ricordato, per l’ennesima volta, Roberto Pasquale Vitale, morto lo scorso fine settimana nel reparto di rianimazione dell'ospedale civico di Palermo dove, qualche giorno prima, era stato trasportato d’urgenza, in coma, dopo che gli agenti della polizia penitenziaria lo avevano trovato privo di sensi nella sua cella, con il lenzuolo stretto attorno al collo.

Aveva 29 anni ed era finito in carcere per rapina. Nemmeno ha fatto in tempo a sapere che il suo legale aveva presentato istanza per ottenerne il trasferimento in un centro di riabilitazione, a causa delle sue condizioni di salute.

Probabilmente la sua morte si sarebbe soltanto aggiunta alla conta dei tanti anonimi che hanno avuto la stessa sorte, se suo padre- un ex poliziotto – non avesse dato voce a quella tragedia, denunciando un’altra pecca del sistema carcerario italiano.

Roberto era malato ed emotivamente fragile; “nonostante chiedesse aiuto ai medici per il suo stato di salute, veniva quotidianamente ignorato" – ha scritto quel padre in una lettera indirizzata all’associazione Antigone - "il caldo infernale lo ha distrutto, nonostante spendesse tutti i soldi che gli lasciavamo per comprare bottiglie di acqua per cercare sollievo e rianimarsi un pò. Alla fine è crollato dopo 15 giorni senza dormire (…) A soccorrere e a rianimare mio figlio sono stati gli altri detenuti, mentre le guardie si sono solo disturbate a chiamare un’ambulanza.”

Chiede aiuto quel padre, affinché quanto accaduto a suo figlio non succeda mai più.

Implora interventi efficaci e, soprattutto, una maggiore umanità.

La sua denuncia solleva il velo su una straziante realtà, che rivela come quella funzione rieducativa assegnata alla pena, che mai può consistere “in trattamenti contrari al senso di umanità” - secondo il dettato dell’art. 27 della nostra Costituzione - sia costantemente disattesa a causa dell’incuria e dell’indifferenza.

Il modello del detenuto suicida non coincide mai con quello di un grande e pericoloso criminale. Incarna, invece, le storie di disperazione e marginalità di persone – giovani soprattutto – fragili, straniere, sole; isolate dall’esistenza già prima e più di quanto non faccia il carcere.

L’associazione Antigone - invocata dal padre di Roberto - redige annualmente un rapporto sul “carcere visto da dentro”, denunciando sempre lo stesso scenario fatto di sovraffollamento, dove a detenuti affetti da patologie psichiatriche o tossicodipendenti non viene concesso spazio sufficiente (non solo in senso fisico) per assistenza, attenzioni, cura della salute.

Nell’ultimo, presentato qualche mese fa, ha ribadito la necessità di dedicare maggiore attenzione ad alcuni aspetti della vita carceraria per controllare e ridimensionare il rischio suicidario, sostenendo che il regolamento penitenziario “dovrebbe prevedere in primis una maggiore apertura nei rapporti con l’esterno, tramite la possibilità di svolgere più colloqui e soprattutto più telefonate e in qualsiasi momento. Grande attenzione va posta al momento dell’ingresso e dell’uscita dal carcere, entrambe fasi particolarmente delicate e durante le quali avvengono numerosi casi di suicidi. L’introduzione alla vita dell’istituto deve avvenire in maniera lenta e graduale, affinché la persona abbia la possibilità di ambientarsi. Maggiore attenzione andrebbe prevista anche per la fase di preparazione al rilascio a fine pena, facendo in modo che la persona venga accompagnata al rientro in società. Oltre alle fasi iniziali e conclusive dei periodi di detenzione, particolare attenzione andrebbe dedicata a tutti quei momenti della vita penitenziaria in cui le persone detenute e internate si trovano separate dal resto della popolazione detenuta perché in isolamento o sottoposti a un regime più rigido e con meno contatti con altre persone.”

È chiaro che mai come in questo preciso momento della vita del nostro Governo, in carica solo per il disbrigo degli affari correnti con poteri di ordinaria amministrazione fino a che non sarà formato il nuovo, una riforma è impensabile.

Tuttavia, sarebbe sufficiente l’ordinario buon senso, assieme ad una lettura più umana di quelle necessità descritte in maniera così affilata nel rapporto di Antigone, per attuare intanto qualche piccolo intervento, la cui efficacia potrebbe invece rivelarsi straordinaria.

Basterebbe, ad esempio, alleviare la solitudine dei detenuti concedendo loro una maggiore possibilità di contatto con i loro cari, affinché si confidino, ricevano conforto, si sentano sostenuti quando camminano sull’orlo dell’abisso. Per non rischiare di precipitare.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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