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Quell’attimo sterminatamente lungo

Autore: Ester Annetta
Quarant’anni fa un sussulto della terra incise un solco profondo all’estremità dello stivale d’Italia, scavando una sorta di trincea che, ben presto, si sarebbe rivelata non solo fisica tra il nord e il sud della Nazione.

Alle 19:34 del 23 novembre 1980 la geografia di decine di comuni tra Avellino, Salerno e Potenza cambiò per sempre, insieme alle sorti delle loro genti, i sopravvissuti, che si ritrovarono improvvisamente privati di tutto.

Fu, dopo il sisma dei primi del Novecento a Messina, la più grave catastrofe dei tempi moderni in tutto il Mezzogiorno d’Italia. I numeri - 2.914 morti, 8.848 feriti e circa 300mila senzatetto – ancora oggi fanno rabbrividire, ed è ancora vivo nel ricordo di chi c’era l’incubo delle gelide notti che seguirono, trascorse all’addiaccio come greggi abbandonate, e l’eco straziante dei lamenti, sempre più flebili, di chi era rimasto sepolto vivo sotto le macerie, tra cui, in assenza di interventi tempestivi, si continuò a scavare per giorni a mani nude o con mezzi di fortuna.

90 secondi, un minuto e mezzo: “un attimo sterminatamente lungo”, come lo definì Alberto Moravia quando, qualche giorno dopo, raccontò sull’Espresso come avesse visto morire il Sud.

Per ragioni di “familiarità acquisita”, ho a lungo assiduamente frequentato i luoghi di quella terra selvaggia e bellissima che è l’Irpinia, disseminata d’una catena di paesini tra loro collegati da strade impervie, vuoti e silenziosi negli inverni - che, lì, sono rigidissimi -, simili tutti tra loro ma ognuno a modo suo unico e caratteristico, con la propria storia ed i segni d’un passato spesso anche glorioso.

Mio suocero – trapiantato sin dall’adolescenza nella capitale -, aveva lì le sue radici, in un paesino adornato da un bellissimo castello e noto per essere stato l’ultima dimora di Carlo Gesualdo, Principe di Venosa, eccelso compositore di madrigali (che gli valsero il titolo di “Principe dei Musici”), tristemente famoso altresì per essere stato reo di uxoricidio.

Vi tornava tutti i fine settimana, spendendosi in infinite cure per la grande casa – una di quelle d’antica nobiltà, composte da un intricato svolgersi di stanze infilate l’una dentro l’altra – che da diverse generazioni tramandava il nome della famiglia.

Quel 23 novembre aveva fatto ritorno in città dopo aver chiuso il grande portone sull’odore di nuovo e pulito: il cantiere che per mesi era rimasto impegnato in un lungo restauro era stato finalmente smantellato e la casa era tornata ai suoi antichi splendori.

Quella stessa sera, una telefonata l’informò che bisognava ricominciare da capo.

Quando, più d’una decina d’anni dopo, andai per la prima volta in quel posto, tutto era ormai solo un racconto; eppure i segni di ciò che era accaduto erano ancora evidenti. Buona parte del paese era stato ricostruito, sebbene più in basso, alle sue stesse pendici, nella campagna che lo lambiva. Nel suo cuore, tra le case recuperate e rimesse a nuovo, molti ancora erano gli scheletri di quelle che non erano state riprese ed erano rimaste lì, con il loro vuoto, come crateri scavati da una carie che, di tanto in tanto, intervalla una dentatura sana.

Dall’altra parte del paese, quella opposta a dove erano sorte le nuove case, si estendeva invece un intero “quartiere” di prefabbricati di legno, ancora vivi, abitati da voci e suoni e colorati da lunghi filari di panni stesi.

Quello che mi dissero allora fu che, quando erano arrivati “i soldi del terremoto” (con ciò intendendosi i contributi per la ricostruzione varati dallo Stato con la legge 219/81) in molti, pur avendo ricostruito o costruito nuove case, erano rimasti a vivere nei prefabbricati “perché lì non pagano né luce né acqua”.

In parte sarà stato anche vero, chissà; ma la triste verità è che, ancora oggi, sono tanti i comuni dell’Irpinia dove esistono “desolati-isolati” fatti di prefabbricati (con termini moderni li chiameremmo “soluzioni abitative di emergenza”), infuocati d’estate e gelidi d’inverno, divenute dimore pressoché definitive, perfettamente contestualizzate nell’urbanistica del territorio, occupate da chi ancora attende l’assegnazione di case popolari che, a distanza di 40anni, ancora non ci sono.

La storia dell’”Irpiniagate” – lo scandalo delle frodi sugli stanziamenti disposti per le zone terremotate – è, del resto, nota. Sulle ingenti risorse stanziate dallo Stato - oltre 50mila miliardi di lire – l’opera di sciacallaggio è stata altrettanto ingente, com’è poi risultato dalle inchieste giudiziarie successivamente avviate, col risultato che il quantum che sarebbe stato necessario non solo alla ricostruzione ma anche ad avviare lo sviluppo industriale che era stato disegnato per quelle aree disastrate, così che potessero risorgere dalle loro ceneri, si è di fatto considerevolmente assottigliato, condannando ancora una volta quel disgraziato Sud all’arretratezza e all’abbandono.

“Fate presto!” tuonò allora la voce indignata del presidente della Repubblica Pertini quando, recatosi sui luoghi del sisma, due giorni dopo, prese atto che i soccorsi non erano ancora arrivati, che chi avrebbe potuto essere estratto ancora vivo dalla macerie non ce l’avrebbe fatta, che le mani nude non erano sufficienti a scavare.

Ma quel grido esortava a molto di più: conteneva l’urgenza di intervenire a sostegno d’una terra i cui problemi atavici il terremoto aveva contribuito a far riemergere, riportandoli all’attenzione generale, divenendo il pretesto per agire e rimediare.

Un po’ com’è accaduto in tempi recenti, allorché un’altra emergenza (sanitaria, stavolta), sempre al Sud (in Calabria, stavolta), ha scoperchiato un calderone di carenze, d’incuria, di giochi di interesse di cui i cittadini (ancora una volta) hanno pagato le conseguenze.

Allora eccolo risuonare ancora quel grido, forte, perentorio, mentre chiama a raccolta forze disperse, reclama risorse dissipate, scuote dall’inerzia le coscienze e l’azione, denunciando l’inaccettabilità d’un sistema che consente ancora – in un’epoca che sbandiera il vessillo delle pari opportunità in ogni ambito ed in ogni contesto - che si riproponga, sempre uguale a se stessa, la drammatica sorte d’un’Italia cadetta.
Fate presto.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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