27 giugno 2020

Ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge ed ex coniuge

Autore: Ester Annetta
Con l’ordinanza n. 11520 del 5.2.2020, la Corte di Cassazione, prima sezione civile, è intervenuta sulla questione relativa ripartizione della pensione di reversibilità tra ex e nuovo coniuge, chiarendo che l’elemento temporale della durata dei rispettivi rapporti non può considerarsi criterio esclusivo né sufficiente.

L’art. 9, comma 3 della L. n. 898/1970 (Legge sul divorzio) laddove prevede che “Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell'assegno di cui allo articolo 5 (assegno divorzile)”, rimanda effettivamente all’elemento temporale della durata del rapporto; tuttavia, utilizzando l’espressione “tenuto conto”, lascia intendere non trattarsi della sola condizione necessaria, ma di uno dei possibili aspetti da considerare.

In tal senso si è espressa la Cassazione, che, con riferimento al caso di specie considerato, ha confermato la decisione cui erano già giunti tanto il giudice di merito che quello d’appello, respingendo dunque il ricorso della seconda partner a cui la Corte d'Appello di Bologna aveva assegnato il 20% della pensione di reversibilità erogata dall'INPS, a fronte dell’80% riconosciuto alla ex moglie. Tuttavia, mentre per i giudici di merito la netta prevalenza dell’attribuzione della pensione di reversibilità nei confronti del primo coniuge appariva giustificata dal raffronto tra la durata delle due convivenze (quella con la prima moglie, lunga 36 anni e nel corso della quale erano nati 4 figli, contro i 16 della seconda relazione in assenza di prole), per la Cassazione – che ha così ribadito una posizione già in precedenza espressa -, ferma restando la correttezza di tale criterio valutativo, che è primario, è necessario che esso vada temperato da criteri correttivi di carattere equitativo, quali l'entità dell'assegno di mantenimento riconosciuto all'ex coniuge e le condizioni economiche dell’ex e del nuovo coniuge. Ciò in forza del principio solidaristico secondo cui il meccanismo divisionale non è strumento di perequazione economica fra le posizioni degli aventi diritto, ma è preordinato alla continuazione della funzione di sostegno economico, assolta a favore dell'ex coniuge e del coniuge convivente, durante la vita del dante causa, rispettivamente con il pagamento dell'assegno di divorzio e con la condivisione dei rispettivi beni economici da parte dei coniugi conviventi (cfr. Cass. 16093/2012).

Nell’ordinanza in commento la Cassazione ha altresì ripreso la posizione espressa dalla Corte Costituzionale che - chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale del sopracitato art. 9 L. 898/70 sollevata con riguardo alla sua presunta violazione degli art. 3 e 38 della Costituzione, nella parte in cui prevede esclusivamente la durata del rapporto matrimoniale quale criterio di ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite – ha precisato che tale ripartizione non può prescindere dalla considerazione delle finalità (quella solidaristica, in primis) e dei particolari requisiti che sono alla base della pensione di reversibilità, i quali non possono essere soddisfatti ricorrendo al solo criterio matematico della proporzione con la durata del rapporto matrimoniale. La reversibilità all’ex coniuge presuppone, difatti, che questi sia titolare di assegno divorzile e, perciò, per l’attribuzione della percentuale dovuta della prima ci si può rifare agli stessi criteri equitativi che sono stati considerati per determinarne l’importo del secondo. Se così non fosse, potrebbe incorrersi nel paradosso di attribuire al coniuge superstite (sposato al de cuius da meno tempo) una quota di pensione del tutto inadeguata alle più elementari esigenze di vita mentre all’ex coniuge potrebbe spettare una quota di pensione del tutto sproporzionata all’assegno in precedenza goduto.

Diverso è il discorso per le convivenze di fatto.
A riguardo, nell’ordinanza in commento la Cassazione riporta la pronuncia della Corte Costituzionale che, nella sentenza n. 491/2000 ha sottolineato che la diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio rappresenta un punto fermo di tutta la giurisprudenza costituzionale in materia "ed è basata sull'ovvia constatazione che la prima è un rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della seconda".

Secondo la Suprema Corte questa ricostruzione va confermata anche alla luce della Legge Cirinnà (L. n. 76/2016) sulle unioni civili. Il legislatore, infatti, ha previsto l'applicabilità alle unioni civili di tutta una serie di norme di cui alla L. n. 898/1970 (compreso l'art. 9), nei limiti della compatibilità. Per le convivenze di fatto, invece, ha previsto unicamente l'applicabilità della disciplina in tema di alimenti ove ricorra lo stato di bisogno.

Ciò è allora da intendersi nel senso che, pur esistendo diverse forme espressive dell'interesse dell'individuo a realizzare la propria personalità nelle formazioni sociali (art. 2 Cost.) non significa che tali forme siano assolutamente equiparabili, cosa che altrimenti finirebbe per negare la stessa ragion d'essere della distinzione. Ne consegue, pertanto, che nelle convivenze di fatto, sebbene caratterizzate da un grado accertato di stabilità, non va riconosciuto al convivente il trattamento pensionistico di reversibilità, che non può certo ritenersi appartenere ai “diritti inviolabili” dell'uomo, ai sensi del dettato costituzionale.
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