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Scelte d’amore

Autore: Ester Annetta
Malika piange ancora ogni volta che ascolta i messaggi vocali di sua madre incisi nella memoria del suo telefonino.

Li conosce ormai a memoria e non è tanto il loro suono, le parole che contengono a farle male, ma il loro peso, poggiato con tutto il suo carico d’astio e rancore sulla sua anima, in cui ha scavato un solco incandescente che continua a bruciare.

Continua a schiacciare quel tasto play nel corso delle interviste che ha rilasciato in questi giorni, ed ogni volta la sua incredulità cresce proporzionalmente al suo dolore, come se non volesse accettare che quelle parole le abbia davvero pronunciate sua madre, la donna che 22 anni fa, per una scelta d’amore, l’ha messa al mondo.

Ma quella era una scelta “sana”, corretta, rispondente ai canoni della normalità e della moralità.

Malika ha invece intrapreso un cammino “contorto”, su un percorso che di ostacoli già di per sé – ne era consapevole - ne avrebbe incontrati tanti; ma di certo non aveva immaginato che tra questi potesse esserci anche il rifiuto, totale e violento, dei suoi genitori.

Ama un’altra donna Malika, e per sua madre questo è un peccato ma, soprattutto, una vergogna. Un amore impuro, scandaloso, schifoso.

E glielo urla con tutte le sue forze, con una violenza inaudita, di quelle talmente intrise di rabbia che portano a scandire bene le parole più offensive, a calcare ed arrotare le “r” , perché sono le consonanti che meglio riproducono i graffi della collera, la crudezza delle accuse, il disprezzo più profondo.

“Schifo”, “vomito” sono i termini meno taglienti contenuti in quel rovescio di improperi e di insulti che lasciano attoniti, ferendo persino le orecchie di chi ascolta senza alcun coinvolgimento.

Malika, ascoltandole ancora e ancora, chiude gli occhi e stringe la bocca, nello sforzo di voler trattenere un urlo di dolore che trova perciò sfogo nelle lacrime, che invece non riesce a domare.

Guardo quelle immagini, ascolto quell’assurdo racconto e le parole taglienti d’una madre che rinnega una figlia, pensando che, si, ancora una volta, si sta dando in pasto al circo mediatico una vicenda che avrebbe dovuto mantenere contorni intimi e riservati, ma che in fondo per una volta fa bene a sfuggire dalle maglie del privato perché possa essere un’ulteriore, tragica, evidenza di inaccettabili pregiudizi che stentano a scomparire.

La verità è che, oltre ogni forma di dichiarata emancipazione e di apertura sociale, al di là di ogni crociata combattuta per affermare l’inclusione e l’accoglienza della diversità – che, ci si ostina a ripetere, non equivale a differenza né a disuguaglianza – resiste di fatto uno spesso strato di non accettazione e di intolleranza che condiziona la condotta e le reazioni, in nome non tanto d’un giudizio di moralità ma di una sorta di selvaggia “difesa della specie” che finisce invece inevitabilmente per degradare l’essere umano al piano di quello animale.

I genitori di Malika altro non rappresentano che l’espressione d’una cultura attempata e retrograda, nella quale ogni azione viene osservata prima di tutto sotto la lente del giudizio altrui piuttosto che essere compiuta secondo la propria, indipendente, libertà di scelta.

Lo dimostra chiaramente un passaggio della delirante invettiva che la madre scaglia contro quella figlia “sporca”: “che vita pensi di andare a fare? A fare la lesbica in giro additata da tutti? Mi parli dell’altra gente? E son fortunati, perché i figli li hanno normali; è solo noi che si ha uno schifo così!”

Dunque, per sottrarsi a quel giudizio, per liberarsi dal peso di dover condividere con la figlia la stessa vergogna, altra soluzione quella madre non trova che di disconoscerla, di cancellarla dalla propria esistenza, come se non l’avesse mai partorita, mai allevata, mai accudita.

“Si sta sbagliando: io non ho una figlia femmina; ho solo un figlio maschio” dichiara sprezzante e risoluta ad un’intervistatrice che cerca di parlarle di Malika.

E difatti quel figlio maschio poco dopo rivelerà che i genitori si sarebbero persino attivati per togliere la residenza ed anche il cognome a quella figlia cancellata.

Una reazione abnorme, ingiustificabile, sottoponibile – essa, si – ad un giudizio di riprovazione, perché sorretta da un inaccettabile valutazione morale che non dovrebbe albergare nella mente di alcuna persona ed ancor meno nel cuore d’una madre.

I vostri figli non sono figli vostri...Nascono per mezzo di voi, ma non da voi. Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono. Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee”: così recita un bellissimo testo del poeta libanese Khalil Gibran, a voler ricordare ad ogni genitore che i figli sono una sorta di “prestito” e che perciò prima o poi vanno resi alla loro vita, alla loro indipendenza, alla loro autonomia, anche quella di scegliere un amore, qualunque esso sia.


Ancora una volta una notifica nell’angolo del monitor cattura la mia attenzione, sembrando giungere a conferma della convinzione – che fermamente conservo – che l’amore per i figli sia talmente diverso e profondo da sottrarsi ad ogni regola, etichetta, protocollo, fino a divenire, sovente, tutt’uno con l’accettazione e persino col perdono.

La notizia è quella che riguarda un sacerdote che ha avviato le pratiche per la sua dimissione dallo stato clericale perché ha dichiarato d’essersi innamorato.

Non mi sorprende la storia in sé, che non è certo la prima del genere. A colpirmi sono piuttosto le ultime righe dell’articolo, scritte con un rigore cronicistico che sembra svilirne la sostanza ed il valore che dovrebbero invece risaltare. Riportano le parole del padre di quel sacerdote, che, alla domanda se fosse felice della scelta del figlio, senza alcuna esitazione ha risposto: "le decisioni dei figli si accettano e basta".

Colloco anch’io questa frase in fondo a tutto. Ma sono certa che suonerà come un diverso finale.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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