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Che un tempo si chiamassero bidelli mentre oggi si chiamano collaboratori scolastici - in ossequio a quegli eufemismi che, in nome del “politicamente corretto”, trasformano solo la forma ma non la sostanza delle cose – non implica che siano diversi o ridotti i compiti che sono tenuti ad eseguire, compreso quello di provvedere alla pulizia delle aule, pena il licenziamento .
È quello che ha ribadito la Cassazione con la sua recente pronuncia n. 17602/2021, che ha riconosciuto la legittimità del licenziamento per il persistente e insufficiente rendimento del “bidello lavativo” che si era rifiutato di spazzare e spolverare aule e spazi comuni della scuola.
Questa la vicenda processuale:
il Tribunale di Bergamo, prima, e la Corte d’Appello di Brescia, poi, avevano respinto il ricorso di un collaboratore scolastico contro il licenziamento disciplinare irrogatogli dal MIUR per persistente insufficiente rendimento, ai sensi dell’ art. 95. co. 7 del CCNL 2007 Comparto scuola.
In particolare la Corte d’Appello aveva rilevato che il ricorrente, appellandosi al D.Lgs. n. 75/2017 (in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) aveva evidenziato che esso, pur consentendo il licenziamento del dipendente per rendimento insufficiente, richiede che a tal fine si debba tener conto "della valutazione negativa della performance del dipendente in ciascun anno dell'ultimo triennio", regola che, dunque, non risulterebbe applicabile ai contratti a termine (come il proprio), soggetti a quella generale della giusta causa.
A tal riguardo la Corte aveva rilevato che non fosse necessario provare l'inadempimento del dipendente, poiché insegnanti e alunni avevano segnalato in diverse occasioni la mancata pulizia delle aule comuni e delle singole classi e perfino lo stesso dipendente aveva pacificamente ammesso di non aver mai effettuato le pulizie in quanto non rientranti tra le sue competenze. Viceversa, poiché le pulizie rifiutate erano quelle di minor impegno (come spazzare i pavimenti e spolverare i banchi) e, in quanto tali, rientranti nei compiti del collaboratore, la Corte territoriale aveva ritenuto che il rifiuto reiterato e ingiustificato di svolgerle integrasse una grave violazione in grado d'incidere sull'organizzazione dell'intera scuola. Il lavoratore inoltre era già stato raggiunto da diversi rimproveri scritti, rimasti senza esito, e contro i quali, anzi, egli aveva minacciato la denuncia per mobbing. Le sanzioni, inoltre, anziché indurlo a rivedere il suo comportamento, avevano rafforzato ancor di più la sua idea di essere nella ragione.
Contro la pronuncia della Corte d’Appello il collaboratore licenziato ha dunque promosso ricorso in Cassazione, adducendo i seguenti motivi: